venerdì 2 novembre 2018

SCOTT MATTHEW

Scott Matthew
Ode to Others
[Glitterhouse 
2018]
scottmatthewmusic.com
 File Under: indie lounge

di Nicola Gervasini (18/07/2018)
I nodi, prima o poi, vengono al pettine, e così anche per l'australiano (ma ormai da tempo statunitense d'adozione) Scott Matthew è tempo di capire cosa poter fare da grande. O forse di rendersi conto che la coperta del suo mondo musicale comincia ad essere corta. Lui aveva già fatto capire i suoi limiti ai tempi del terzo album Gallantry's Favorite Son, recensito anche su queste pagine, dove la sua estetica fatta di piglio lo-fi da indie-folker e eleganze pop alla Rufus Wainwright mostrava già una certa ripetitività, e ora arriva questo Ode To Others a ribadire il concetto.

Il disco è confezionato con grande cura, fin dal lussuoso packaging che ancora combatte fieramente la guerra contro la sparizione dello stesso a causa dello streaming, e da una produzione tecnicamente ineccepibile, con suoni che è davvero un piacere sentir uscire dalle proprie casse (ovviamente se sono quelle di uno stereo vero e non del vostro smartphone). Ma il menu purtroppo conferma che l'uomo è solo un capace e talentuoso intrattenitore a cui manca davvero sempre quel "quid" in più per esaltare. E certi numeri come "prendo un brano anni 80 e lo rifaccio come se fosse una triste ballata indie anni 2000" potevano forse essere dirompenti ai tempi della Let's Dance di Bowie rifatta da M Ward, curiosi quando Josè Gonzalez stravolse una hit della giovanissima Kyle Minogue (Hand On Your Heart), ma oggi appaiono più che mai come una operazione prevedibile, come dimostra una stanca Do You Really Want To Hurt Me dei Culture Club rigenerata per ukulele e fiati.

Per il resto il disco offre il solito mix di voglia di essere lo Scott Walker dei nostri anni, purtroppo senza però la classe di altri storici adepti al culto tipo Marc Almond. I brani in genere offrono testi ispirati e molto personali, ma è l'insieme che non convince. End Of Days apre il disco in tono leggero con un pop vagamente alla Bacharach, a cui fanno seguito la malinconica The Deserter, e veri e propri inni funebri dedicati al padre (Where I Come From) o allo zio (Cease and Desist), dove sono solo gli interventi della viola o della tromba che riescono a dare una profondità ad una interpretazione altrimenti un po' piatta. Happy End resta soffusa e sussurrata, mentre The Wish risulta troppo autoindulgente con le proprie possibilità espressive, un momento davvero poco ispirato che fortunatamente viene compensato da una Not Just Another Year che finalmente trova un arrangiamento adatto ad esaltare la bella melodia.

Il momento migliore del disco è però l'altra cover, una Flame Trees pescata dal repertorio dei Cold Chisel di Jimmy Barnes, qui resa al piano in maniera tanto intensa da ricordare quasi il Nick Cave di Boatmans' Call. L'attenzione ai particolari e la passione che ci mette non consentono una totale bocciatura, ma "i dischi della maturità" sono ben altra cosa.

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