venerdì 25 luglio 2014

DYLAN SHEARER

DYLAN SHEARER
GARAGEARRAY
Empty Cellar Records
**
Quando nel 2007 uscì For Emma, Forever Ago di (o dei che dir si voglia) Bon Iver, era giusto notare che chiudendosi in quel famoso cottage del Wisconsin, Justin Vernon non si inventò nulla, ma in qualche modo stava dando il via a qualche cosa di nuovo. Oggi, a distanza di ormai quasi sette anni, abbiamo contato parecchi emuli, e possiamo dire che forse la moda dell’home-made troubadour sta leggermente scemando. Per questo il nuovo disco del giovane Dylan Shearear appare quanto mai fuori tempo massimo, perché forse non si sentiva il bisogno di una nuova voce che riesce a fondere in un colpo solo Bon Iver e ancor più la grande lezione lasciata precedentemente dal compianto Elliott Smith, in un unico album. Per il momento infatti Garagearray riesce solo nell’intento di aggiungere un nome alla già folta lista, perché in queste undici tracce è davvero difficile scovare elementi che possano far gridare al miracolo o anche solo qualche tratto caratteristico da segnalare. E sì che Shearer, già autore di un album nel 2012 (Porchpuddles), punta davvero in alto quando dichiara di voler ricreare l’allucinato songwriting del Robert Wyatt epoca Rock Bottom o addirittura di Kevin Ayers, ma davvero qui si sente tanta grande perizia nel rileggere schemi altrui, ma nessuno colpo di genio degno di contanti nomi. In ogni caso, date le opportune bastonate a chi osa così tanto, va detto che se siete degli appassionati del genere, Shearer comunque sa il fatto suo, e tra l’altro si è fatto anche aiutare da una sezione ritmica (per quanto di ritmo non ce ne sia proprio…) formata dagli scafati Petey Dammit degli Thee Oh Sees al basso e Noel Von Harmonson dei Comets on Fire alla batteria. Non potendo lavorare troppo sulla varietà delle canzoni (si distinguono comunque Baggage Claim, Altar of Love e l’iniziale Time To Go), il produttore Eric Bauer punta tutto su suoni riverberati e riscaldati al massimo per riempire le frequenze con poco. Stratagemmi vecchi ma di sicuro effetto che rendono Garagearray un disco che può anche regalare momenti intensi, ma in tempi recenti sullo stesso terreno anche un Barzin, o mettetecene uno voi, ha saputo già dire di più. Shearer è giovane e magari saprà sorprenderci in futuro se sarà capace di essere meno calligrafico,  ma per ora sta in coda, e neanche troppo vicino al traguardo.
Nicola Gervasini


mercoledì 23 luglio 2014

THE WHIGS

THE WHIGS
MODERN CREATION
New West
***
Non so se l’ironia del nome sia voluta o no, ma la band chiamata come il maggiore partito politico progressista d’Inghilterra è in verità portavoce di una corrente decisamente reazionaria del mondo del rock. Scherzi che si possono permettere solo i Whigs, una delle ormai neanche troppo nuove (l’esordio è del 2005) realtà provenienti da REM-City (al secolo Athens, in Georgia), giunti con Modern Creation al traguardo del quinto album. La contraddizione però descrive perfettamente la loro strana condizione di american-band votata ad un rock chitarristico decisamente di marca britannica, fatto che li ha portati in passato a fare da gruppo spalla contemporaneamente ai Drive By Truckers e ai Franz Ferdinand, giusto per far capire la difficile catalogabilità della loro musica. Prendete i Black Keys e fategli suonare cover dei Blur e forse qualcosa potete immaginarvi. Parker Gispert, Julian Dorio e Timothy Deaux (rispettivamente chitarra e voce, batteria e basso) sono il classico power-trio come se ne sono visti tanti in questi anni, ma sono riusciti nonostante tutto a crearsi uno stile abbastanza personale, meno allucinato e psichedelico di quello dei Band of Skulls, e più avvezzo a tendere a pop-song di marca fab-four come nella conclusiva The Difference Between One and Two. Si parte però con un bel muro rock di You Should Be Able To Feel It, si passa ad una Asking Strangers For Directions che sembra un brano dei Pulp con base quasi-metal, mentre The Particular potrebbe essere un incontro tra i Verve e i Dinosaur Jr. Come avrete capito il programma è vario e ama unire elementi apparentemente inconciliabili, con risultati anche brillanti come quando in Hit Me si azzarda una pulsante base quasi-dance ad una frizzante pop-song, o nella bella costruzione di Modern Creation. Il gioco è comunque tutto qui, anche quando si prende una base a tutta velocità da punk californiano e la si unisce a scanzonati coretti pop (Friday Night), o si riesumano giri alla Husker Du (She is Everywhere), fino ad un finale in tono minore con Too Much In The Mornig e I Couldn’t Lie. Produzione ben pompata da Jim Scott (Wilco) con batteria in primo piano, Modern Creation è un buon album per tenervi svegli in un viaggio in macchina perché unisce l’energia delle chitarre alla cantabilità dei brani. Se poi questo rappresenti davvero una gran novità è tutto un altro discorso…

Nicola Gervasini

venerdì 11 luglio 2014

NATALIE MERCHANT

L’altezzosa signora della canzone d’autore Natalie Merchant non concedeva un disco di originali dal 2001, anno in cui si consacrò come autrice e interprete di primissimo livello. Nel frattempo l’attesa era stata ingannata con riusciti progetti edificati sulle salde fondamenta di traditionals e poesie sull’infanzia, ma è sui dischi autografi che si misura la statura di una artista. Intitolato semplicemente Natalie Merchant (Nonesuch), quasi a voler sottolineare una sorta di ripartenza dopo un lungo blocco (di ispirazione, o semplicemente di energie), il disco la conferma come una delle poche interpreti in grado di trasformare in oro anche il ferro più arrugginito solo con la propria voce. La ricetta è nota e prevede il solito mix di folk (Texas), spirituals (Go Down Moses), ardite orchestrazioni (Lulu), eteree melodie (Seven Deadly Sins) e qualche concessione al pop più canticchiabile (Ladybird). Il livello eccelso di Motherland e Tigerlily è lontano, complice anche una certa autoindulgenza ed una eccessiva fiducia nel potere della propria voce rispetto ad una scrittura non sempre brillante, ma la lezione di stile per le nuove leve c’è tutta. Magari anche solo per il fatto che prima di essere ammessa nella serie A, lei negli anni 80 si è fatta una lunga e doverosa gavetta da outsider con i 10.000 Maniacs, per cui si può accettare che ora si conceda un disco che fa un po’ di sano catenaccio per mantenere il risultato.

Nicola Gervasini

martedì 1 luglio 2014

SONIDO GALLO NEGRO

SONIDO GALLO NEGRO
SENDERO MISTICO
Glitterbeat
***1/2

Vengono da Citta Del Messico e sono ben in nove i Sonido Gallo Negro, un ensamble che sta facendo molto chiacchierare negli ultimi tempi.  Nel 2011 avevano esordito con un album (Cumbia Salvaje) che pareva destinato a morire nel mercato messicano, fin quando nel 2012 il regista Emir Kusturica, dopo aver casualmente assistito ad una loro performance televisiva (i miracoli delle tv satellitari..), li ha invitati al Kustendorf Festival, kermesse di musica etnica che lui stesso patrocina in Serbia. Sendero Mistico è dunque la loro prima realizzazione distribuita internazionalmente, e sicuramente non tradisce le aspettative. Innanzitutto avvertiamo: la loro musica è completamente strumentale, ed è un mix di mille sapori e culture riprodotti con piglio da colonna sonora cinematografica, che ricorda molto , su altre sponde, quella dei nostrani Sacri Cuori e del loro album Rosario. Proviamo dunque ad addentrarci nel melting pot della loro musica: tex-mex ovviamente, echi morriconiani ancor più ovviamente (anche se sarebbe da capire dove si stanno solo riprendendo la loro musica o se davvero il nostro Morricone è riuscito ad inventarsi un genere che pure in  Messico considerano come cultura propria),  ritmi sudamericani come la cumbia peruviana o la sua variante della Sonidera Cumbia, oppure momenti di chicha (termine che indica sia un ballo che una tipica bevanda sudamericana), di boogaloo (che è una versione molto nordamericana della musica latina), o di huayno (altro passo di origine peruviana). Ogni tanto si pensa di riconoscere melodie note (la linea di Alfonso Grana ad esempio ricorda la molto nota La Colegiala), ma è solo perché bisognerebbe anche fare un attento studio su dove nascano certe melodie tradizionali del luogo e come siano state rielaborate nel tempo da musicisti pop e non. La grandezza dei Sonido Gallo Negro sta nella grande varietà di suoni, con nessuna preponderanza, ma con la chitarra di Gabriel Lopez spesso in evidenza, come anche l’hammond di Julian Perez o il flauto di Lucio de los Santos. Non c’è un leader, ma ovviamente a farla da padrone sono batterie e percussioni, in un tripudio di ritmi e rumori latini davvero avvolgente. Nulla che poi possa servire davvero a far ballare i tanti adepti nostrani del ballo latino-americano che popolano le discoteche di provincia: la loro musica fa ballare, ma soprattutto crea immaginari sonori che necessitano di calma e attenzione. Lasciatevi coinvolgere anche voi.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...