lunedì 23 aprile 2012

DELTA SPIRIT


Delta Spirit Delta Spirit
[
Rounder  
2012]
www.deltaspirit.net
 File Under: synth-rock, pop-folk
di Nicola Gervasini (06/04/2012)

Per voi è facile: vi fate un giro on-line, cercate uno streaming disponibile, trovate un paio di video su youtube, e magari vi basta un ascolto veloce per capire se un disco fa o non fa per voi. E non c'è recensione del guru della critica musicale di turno che possa convincervi ad insistere con l'ascolto, magari per scoprire quelle sfumature che la prima volta non è possibile cogliere. Avrete già deciso di passare ad altro prima che quella musica possa diventare vostra, sia fisicamente (acquistandola), che emotivamente. Ma mettetevi nei panni del vostro povero recensore, che mai diventerà un guru (quelli esistevano solo trent'anni fa, quando la gente si doveva fidare per necessità), ma ha (o, più correttamente, "si prende") la responsabilità di dare una giustificazione di un rifiuto che non sia un semplice "non mi piace". Che cosa deve inventarsi il vostro fu "imbrattacarte", oggi "intasatore di banda web", per spiegarvi perché questo secondo album dei Delta Spirit è, a conti fatti e ascolti ripetuti, un inenarrabile flop.

Ci ha riflettuto molto il pover uomo, ha ascoltato queste canzoni più volte, in macchina, a casa sullo stereo, in cuffia nell'ipod, in cucina mentre pelava le patate, sul computer mentre scrive queste righe, ma non solo non ha trovato il senso di questa svolta stilistica, ma neppure ne ha compreso appieno la funzione. E sì che il vostro aveva addirittura nominato il loro disco precedente (History From Below) tra i Top 10 albums del 2010, per cui partiva ben disposto verso questa attesa opera terza, ma davvero non ci siamo. La scelta è quella di allinearsi al generale ritorno agli anni 80, e arrivano buon ultimi ormai (Okkervil River, Paul Weller, Bright Eyes, Mark Lanegan, fermatemi perché posso tirare la fine della recensione solo con questo elenco), ma se è possibile con idee ancora più confuse sull'argomento dell'analogo disastroso tentativo dei Felice Brothers (vi rimando alla recensione di Celebration, Florida), perché il sound magniloquente di Tear It Up o il pasticcio new wave (un'onda che da loro arriva in ritardo di quarant'anni circa) di Money Saves davvero non trovano giustificazione se non nel voler esibire la propria versatilità.

In questi casi il recensore, sfiancato dall'interminabile e stancante muro di suoni a casaccio che regna più o meno per tutto l'album, prova a dirigersi verso la scrittura, nel tentativo di salvare il salvabile, e qui, raschiando la patina di orpelli inutili, affiorano perlomeno Idaho o Into The Darkness, e in generale una capacità di raccontare i disagi del proprio essere artista che segna comunque un punto a loro favore. Troppo poco però, il fallimento è tutto nel non essere riusciti a costruire un suono "loro", che li possa identificare tra i tanti, perché comunque non è certo questa l'essenza dei Delta Spirit, neanche di quelli che vorranno essere in futuro se proprio la vena freak-folk degli esordi gli sta così stretta. Altrimenti una buona retromarcia è caldamente consigliata. 

giovedì 12 aprile 2012

SHEARWATER - Animal Joy


Shearwater
Animal Joy
[
Sub Pop
2012]

www.shearwatermusic.com
www.subpop.com

File Under: : indie rock

di Nicola Gervasini (01/03/2012)

Strade diverse, ma percorse con lo stesso passo: è questo il destino che lega Will Sheff e Jonathan Meiburg. L'addio di quest'ultimo al mondo degli Okkervil River (per anni ne è stato attivo collaboratore) sembra ormai definitivo, la sua creatura marina Shearwater ha raccolto sufficienti consensi per continuare da sola, grazie ad una trilogia dedicata proprio all'acqua che ha avuto in Rook il suo apice e nel precedente The Golden Archipelago il suo più stanco canto del cigno. E così, come l'amico Will, Jonathan ha sentito la necessità di cambiare, mossa non facile per uno con una vocalità così caratterizzante come la sua, condannato com'è ad evocare immagini senza poter urlare rabbia. Ma se l'animale non può cambiare voce, perlomeno può cambiare il manto (e magari anche etichetta, passando alla più scafata Sub Pop), e laddove gli Okkervil River hanno svoltato negli anni dieci tenendo testa al synth-sound revival che abbiamo nelle orecchie al momento anche grazie a Lanegan e tanti altri, Meiburg prova una solo apparentemente improbabile via rock che sta facendo storcere non poco il naso a chi li apprezzava per la loro misura e modestia.

L'anima di Animal Joy è tutta nel titolo e nelle unghie della copertina, nell'animale che abita nella grancassa del batterista Thor Harris, una bestia che sbraita con passo pesante e fa rimbombare la pareti con un "big drum sound" d'altritempi che imperversa anche quando magari il ritmo si fa dark e ipnotico (ma quanto sarebbero piaciute ai Cure di Faith e Pornography le gotiche Dread Sovereign e la lunga Insolence?), ma anche nella gioia di riscoprire la propria componente selvaggia, evidenziata dai testi sempre alla ricerca delle contraddizioni della civilizzazione e di quanto natura, animali e uomo siano dolorosamente in simbiosi. Meiburg vince la sua partita esattamente come il compare, non arrivando forse al capolavoro della band, ma impostando una svolta stilistica credibile, che ha tutta l'aria di poter essere duratura. E lo fa non perdendo nulla del suo fascino, intatto quando trova le melodie perfette (You As You Were o Star Of The Age), quando cerca l'immediatezza di una pop-song (Breaking The Yearlings, ma anche la title-track), o quando si ferma a meditare come solo lui sa fare (Believing Makes It Easy).

Si può notare che, come spesso succede alle opere di transizione, c'è ancora qualche sbavatura da aggiustare, magari l'indiavolato ritmo di Immacolate che va troppo oltre le loro possibilità, o la pestata di Harris non così necessaria in Open Your Houses, e in generale una parte centrale che non tiene la stessa tensione degli estremi, ma nel complesso la battaglia pare vinta. Ora c'è però la guerra contro il loro stesso pubblico, che non è detto che sia pronto a perdonare l'unica mossa intelligente che potevano fare. D'altronde questi anni dieci stanno finalmente cominciando ad avere una connotazione stilistica lontana dal mito dell'artista indipendente, musicalmente scarno e solitario degli anni zero, e gli Shearwater vogliono esserci quando finalmente capiremo dove stiamo approdando.



martedì 10 aprile 2012

ANDRE WILLIAMS - Hoods And Shades

Andre Williams
Hoods and Shades
[Bloodshot Records 2012]

www.bloodshotrecords.com


File Under: blues-folk, punk-soul

di Nicola Gervasini (16/03/2012)


Attenzione! Questo è un disco di serie B, fatto da un artista di serie B, anche se con un produttore di serie A (Don Was). E pure la copertina, con quella grafica da locandina di filmaccio anni 70, è da serie B. Ma siccome su queste pagine siamo da sempre rispettosi verso le serie minori, dove a volte lo spettacolo è più genuino che nella trita e ritrita serie A, allora torniamo volentieri a fare visita alle lande di Andre Williams (lo avevamo incontrato nel 2006 per l'album Aphrodisiac). Personaggio minore di quelli che piace molto riesumare di questi tempi, famoso per aver scritto già negli anni cinquanta una hit come Bacon Fat (la rifece anche Willy DeVille tra i tanti), Williams resta molto meno noto per la sua discografia, iniziata seriamente in tarda età.

I cinefili per un disco come Hoods And Shades userebbero il termine "scult", vale a dire un'opera fatta di talmente poco da risultare per questo memorabile. I critici invece per lui coniarono il termine blues-punk, quasi a voler giustificare quell'aria da fai da te dei quattro quarti che regna nei suoi dischi, esattamente come capita anche in questo caso. Il disco è presto spiegato: nove giri di folk-blues che John Lee Hooker masticava già 50 anni fa senza troppo pensarci, retti dalla sua chitarra acustica e una batteria fracassona (dono di Jim White), una chitarra elettrica che fraseggia e ricama in lontananza, come se fosse stata registrata in un'altra stanza (è quella di Dennis Coffey, un monumento della Motown), il basso distratto di Jim Diamond dai Dirtbombs e lui che perlopiù parla imitando a volte Lee Hooker, oppure impostando tutto su tinte più soul.

La prima volta, in A Good Day To Feel Bad, il giochino diverte, ma già nella lunga title-track si fa leggermente ripetitivo e fine a sé stesso. Proprio come i film di serie B, che magari iniziano promettendo una grande storia, ma poi non mantengono per mancanza di una valida sceneggiatura. E così se l'iniziale Dirt piace per quel senso di indolenza alla JJ Cale, i dolori vengono quando il nostro gioca a fare il James Brown rurale (I've Got Money On My Mind) senza averne però il ritmo adeguato. Passano così boogie di seconda mano (Jaw Dropper), delta-blues acustici da barrelhouse (Hu-matic Man) e sentiti omaggi a miti della black music (Swamp Dogg's Hot Spot). Soluzioni accattivanti e banalità macroscopiche convivono pressoché in ogni traccia, e nulla può un Don Was impegnato a rendere tutto credibilmente vintage. Alla fine quello che vince è il fascino del personaggio e della sua voce, e quell'aria di uno che ha troppe storie da raccontare per non valer la pena di ascoltarlo. Proprio come quei film polizieschi degli anni 70, le cui scene di azione erano troppo avvincenti per perdersele, magari solo per il fatto che il plot non stava in piedi o gli attori erano incapaci di avere più di tre espressioni diverse.

giovedì 5 aprile 2012

GRACE WOODROOFE - Always Want


GRACE WOODROOFE

ALWAYS WANT

(Modular)

***

E’ una storia tutta da raccontare quella di questo Always Want, album di esordio di Grace Woodroofe, giovane chanteuse australiana. Scoperta e fortemente sponsorizzata dall’attore Heath ledger (quello di Brokeback Mountain per intenderci), è stata poi presa sotto la giurisdizione artistica di Ben Harper, che le ha dato la possibilità di aprire i suoi concerti nonostante fosse una perfetta sconosciuta. La gestazione di Always Want è stata lunga, circa quattro anni passati da quando Grace aveva già registrato questi brani in Australia in una chiave più folk, fino a quando Ben Harper negli Stati Uniti ha ribaltato tutto ancora una volta, donando al disco un’affascinante chiave dark. I riferimenti sono quelli di Marissa Nadler e Anais Mitchell per la componente folk, ma più chiaramente si guarda alla PJ Harvey di sempre, sia nella sua anima più rock che in quella più nera alla Nick Cave di alcuni suoi album. Il disco si barcamena tra alt-rock e folk etereo, come quello messo in mostra dal singolo I’ve Handled Myself Wrong, brano irresistibile accompagnato da un video che la vede navigare alla deriva su una barca che pare quella di Caronte, fino ad episodi più decisi come la ruvida Bear. Harper contribuisce quasi solo con la sua voce, limitando al minimo gli interventi con la chitarra, quasi a non disturbare il clima soffuso dell’album, che trova la sua forza nelle tristi confessioni di una ragazza alla ricerca di un proprio ruolo nella vita (i mille personaggi interpretati in Transformer), e che cerca la ricetta per maturare nelle parole che le scrisse il padre, che le spiegava che nella vita sarebbe passata attraverso paura, rabbia e profonda depressione, e che l’accettazione di tutti questi stati sarebbe arrivata solo molto dopo nel tempo (il tutto è nella bellissimo folk di H.). Album breve (31 minuti), forse spesso troppo compiaciuto nel suo minimalismo e nei toni tragici (la pianistica Oh My God o la marcia funebre di Nocturnal), Always Want è comunque un bell’esordio di una artista ancora legata a dei modelli precisi. Restiamo in attesa di vedere se nel futuro saprà divenire lei modello di se stessa.

Nicola Gervasini

lunedì 2 aprile 2012

BEN KWELLER - Go Fly A Kite


BEN KWELLER

GO FLY A KITE

Noise Rec.

***

Nel decennio del rock indipendente e nascosto nei meandri della rete, Ben Kweller è stato uno dei pochi artisti che ha potuto vantarsi di essere entrato nella Billboard americana con ben 4 tra i suoi sette album. Non che abbia molto senso notarlo ormai, visti i volumi ridotti che bastano per entrare in top 100, ma è evidente che la formula del suo roots-pop-rock è risultata spesso vincente. Sarà che le sue canzoni sono spesso brevi, hanno un ritornello sempre molto radio-friendly, nonostante le sue restino produzioni di genere costruite secondo le nuove regole dell’artigianato rock. Go Fly A Kite arriva tre anni dopo Changing Horses, non certo per rivoluzionare la sua carriera o imporre chissà quali svolte, quanto per confermare il suo inconfondibile stile. Al massimo si può notare come l’iniziale Mean To Me macini un insolito arena-rock di grana grossissima, ma già con Out The Door si rientra nei ranghi con una pop-song che potrebbe appartenere ad un Paul McCartney in gita americana (e quando si arriva a Gossip la somiglianza con la vocalità di Sir Paul diventa anche più evidente). Amante della instant-melody, Kweller riesce comunque sempre a dare l’impressione di essere anche un buon autore, persino quando riesce a trasformare un pop adolescenziale come Jealous Girl in una jingle-jangle song degna del Freedy Johnston degli anni migliori, o nell’irresistibile pop-folk alla Byrds di Full Circe. Non tutto funziona, Free è monotona e sfrutta un giro armonico abusatissimo, mentre i cambi di tempo di Justify Me non funzionano a dovere. Tutto bene invece quando si abbandonano i canti e ci si rilassa con ballatone da accendino come The Rainbow o I Miss You, o quando si accelera con il power-pop di Time Will Save The Day. Il fine di far cantare la gente è talmente dichiarato che nel booklet non ci sono solo i testi, ma pure gli accordi, nel caso vogliate suonare queste canzoni in spiaggia con gli amici. Non sono i classici che chiunque conosce da anni, ma fanno tutte finta di esserlo.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...