giovedì 31 dicembre 2009

JONI MITCHELL, JAMES TAYLOR, PHIL OCHS - Amchitka



Dicembre 2009
Rootshighway


Da dove preferireste che si cominciasse? Da un'introduzione su Greenpeace e sui suoi nobili obiettivi? Dalle considerazioni su questa uscita (in ritardo di quasi quarant'anni) e sui tanti benefit-concert sparsi negli anni che mancano ancora all'appello discografico? Oppure che vi parlassimo dei tre protagonisti di questa serata? Decidiamo noi: partiamo da Phil Ochs, ma come pretesto per parlare di tutto. Che vuol dire partire da uno sconfitto che vuole combattere ancora mille battaglie, da un ex folk singer del Greenwich Village che nel 1970 si è giocato tutto il credito che il mondo era disposto a dargli (pochissimo a dir la verità…), e che a febbraio licenziò con l'improbabile Greatest Hits (il titolo più ironico della storia del rock) il suo ultimo album in studio. Persi i contratti e la voglia di scrivere nuove canzoni, Ochs sarebbe andato subito alla deriva (ci arrivò con più calma sei anni dopo) se non avesse incontrato Irving Stowe, colui che nel 1966, cercando di fermare i test nucleari statunitensi nell'isola Amchitka in Alaska, inventò quasi per caso l'organizzazione ecologista Greenpeace. Questo concerto interamente acustico, organizzato da Stowe nell'ottobre del 1970, è da sempre considerato il vero e proprio start-up dell'organizzazione a livello internazionale, e da qui in poi Ochs avrebbe dato vita e partecipato a concerti di beneficienza per tutti gli ultimi anni della sua vita, con tutta la sua tipica cieca caparbietà, ma anche una lucida abilità nel cogliere i temi di interesse futuro per cui combattere. Amchitka potrebbe dunque essere il primo dei tanti possibili omaggi che si dovrebbero fare a questo sfortunato e lungimirante artista, se solo si scavasse bene negli archivi e si cercassero i suoi concerti a favore di Salvador Allende, John Sinclair, George McGovern o la gran celebrazione della fine della guerra del Vietnam ("War Is Over" del 1975, con John Lennon tra i tanti illustri ospiti), da lui fortemente voluta, e incredibilmente mai pubblicata su disco. Anche perché il suo set qui presente rappresenta il meglio dell'Ochs più tagliente e incazzato, con convinte versioni di Rhythms of Revolution, Chords of Fame, l'immancabile I Ain't Maching Anymore e la torrenziale Joe Hill. Una testimonianza ben lontana da quella che offrirà il suo ultimo live Gunfight at Carnegie Hall (pubblicato nel 1975, ma registrato sei mesi prima di questo concerto), dove scimmiottava Elvis Presley per affondare definitivamente la sua credibilità di giornalista-cantante. La parte di Ochs occupa metà del primo dei due cd, giusto il tempo di suonare otto brani prima di farsi sostituire da un James Taylor fresco di insperato successo e notorietà, come lui stesso ribadisce presentando Carolina In My Mind. La parte di Taylor, costituita da sette strafamose canzoni tratte dai suoi primi tre album (Fire And Rain è sempre un colpo al cuore in qualunque veste la si presenti) è interessante soprattutto perché non vi sono sue testimonianze live del periodo, anche se James non è uomo da grandi variazioni sul tema e si tiene ligio agli originali. L'intero secondo cd è invece dedicato alla giovane Joni Mitchell, vera mattatrice della serata. Cinquanta minuti frizzanti e convinti i suoi, che servirono anche a presentare al pubblico alcuni inediti che costituiranno l'ossatura del suo disco successivo (il capolavoro Blue), vale a dire My Old Man, A Case Of You (presentata con un titolo molto più lungo) e una versione da dieci minuti di Carey in medley con una Mr. Tambourine Man di Dylan cantata a due voci con James Taylor. La Mitchell appare in forma, e la giocosa versione di Big Yellow Taxi che si trasforma nel classico Boney Maroney (con la memorabile rima iniziale "I got a girl name of Boney Maroney, she's as skinny as a stick of macaroni"), così come i classici Woodstock e The Circle Game, sono più che vibranti. Una testimonianza importante che va a coprire il periodo più da folk singer pura della Mitchell, visto che di lì a quattro anni il live Miles Of Aisles racconterà già una Joni diversa. Considerazioni sociali a parte sull'argomento Greenpeace (per le quali rimandiamo al ben redatto booklet di 48 pagine, che racconta tutto il raccontabile sull'argomento), il gran valore musicale di Amchitka è quello di essere formato da tre live realmente inediti e storicamente necessari per capire i percorsi di tre grandi artisti della canzone americana. E vista la gran quantità di materiale pressoché inutile e ridondante, pubblicato dalle case discografiche in questi ultimi vent'anni di forsennato recupero di vecchi archivi, non è davvero poco. (Nicola Gervasini)

lunedì 28 dicembre 2009

JAMES YORKSTON - Folk Songs


04/12/2009
Rootshighway




Ci sarebbe da tirare le orecchie a miriadi di artisti per come ingarbugliano le loro discografie di titoli superflui, con l'unico risultato di far perdere la bussola a chi non è fan dedicato. La lista di esempi è lunghissima, ma stavolta dietro la lavagna ci mandiamo James Yorkston, nu-folker che seguiamo con ammirazione, quanto anche col fiatone di chi non sempre riesce a stare al ritmo delle sue produzioni. Che, a ben guardare, sono poche e centellinate, se prendiamo gli album veri e propri: quattro in otto anni, con una buona accoppiata all'esordio (Moving Up Country e Just Beyond The River), un terzo disco irrisolto e oscuro (The Year Of The Leopard) e un quarto che ha fatto il botto (When The Haar Rolls In), divenendo il suo personale capolavoro. Un percorso normale per un artista ormai maturo, nonché una delle poche menti rimaste "pensanti" e non solo "suonanti" del brit-folk inglese di stampo classico. Ma in mezzo James ci ha piazzato una miriade di progetti a latere, ep, live, raccolte di b-sides (Roaring The Gospel), e ora, immancabile e puntuale come la morte, arriva anche il cover-album di traditionals, feticcio senza il quale non bisogna neanche osare definirsi artista moderno.

Folk Songs (un paio di minuti in più a pensare un titolo meno ovvio no, eh?) viene così licenziato quando ancora non abbiamo finito di sviscerare gli splendidi meandri del suo disco precedente, e ci costringe così a riportare in auge la solita trita e ritrita tiritera del "si ascolta con piacere, ma…", "non che sia brutto, ma..." e "disco solo per fans…", con l'infelice decisione di non affibbiare il 4 che meriterebbe l'originalità dell'idea, e nemmeno l'8 di cui tutti questi brani sono più che degni destinatari. Salomonico 6 dunque per ricordare che il disco è ben suonato dai Big Eyes Family Players, band che ha all'attivo una propria produzione di genere fin dal 1990, apporto che comunque non evita qualche sbadiglio e eccessivi rilassamenti sparsi. E poi per ricordare il repertorio scelto, tutto incentrato sulle canzoni di pubblico dominio riscoperte nel periodo del folk-revival di fine anni sessanta, con particolare dedica all'affascinante figura di Anne Briggs, che qui viene "ripresa" nell'iniziale Hills Of Greenmoor, in Martinmas Time e in Thorneymoor Woods, tutti titoli che si trovano nella sua breve e sempre da riscoprire produzione.

Un secondo intenso pensiero viene rivolto ad un altro dimenticato eroe come Nic Jones, che qui viene richiamato tramite Rufford Park Poachers e Little Musgrave, e così via, con omaggi ad altri idoli di gioventù come Shirley Collins, Jean Ritchie, Eliza Carthy, Nancy Kerr e svariati paladini di un ritorno alle radici neanche troppo annacquato dai suoni rock. Folk Songs è un disco che Yorkston sognava di fare fin dal 2000: serviva a lui, serve sempre perché è musica di gran valore, ma non servirà molto quando dovremo ricordarci perché mai lo consideriamo uno degli incontri più significativi fatti durante i nostri viaggi sulle highways britanniche.
(Nicola Gervasini)

martedì 22 dicembre 2009

PETER BRADLEY ADAMS - Traces


Buscadero
Dicembre 2009




Il mondo si è accorto di Peter Bradley Adams nel 2005, quando una cover del traditional Hard Times (Come Again No More) commentò le immagini del film Elizabethtown di Cameron Crowe. La sua band allora si chiamava Eastmountainsouth, e l’avventura cinematografica era il risultato di un contratto firmato da Bradley con la Dreamworks grazie al direttore artistico dell’area musicale della nota casa cinematografica, un “certo” Robbie Robertson, che ormai da anni fa vita da dirigente. Con un simile nobile sponsor, Bradley ha avuto l’occasione di registrare due album da solista (Gather Up del 2006 e Leavetaking l’anno scorso), apprezzati esempi di folk delicato e “poppish”, che gli hanno fatto guadagnare riconoscimenti e onori dagli addetti ai lavori. Traces continua a seguire la linea a basso profilo già intrapresa in passato, anche se stavolta affiora una maggiore attenzione agli arrangiamenti, come risulta subito evidente dallo studiato impasto di voci (l’aiuta la brava cantautrice Katie Herzig) che impreziosisce l’iniziale Family Name. Nonostante l’utilizzo di tanti strumentisti acustici e archi, alla fine il fulcro dell’album restano i bozzetti per sola chitarra e voce come For You, Darkening Sky o I Cannot Settle Down. E’ un disco non facile, perché le canzoni di Adams risultano davvero avere una marcia in più in termini di scrittura (sentite attentamente I Won’t o Trace Of You e poi ci dite), ma evidentemente manca qualcosa in sede di produzione (lui stesso si assume l’onere) che riesca a far risaltare questa grande dote nel dovuto modo, perché ai primi sommari ascolti (quelli che purtroppo i tanti navigatori del web concedono a queste produzioni indipendenti) il disco appare più piatto e monotono di quanto in verità non sia. Certo, ogni tanto Adams si addormenta un po’ sulle sue stesse note (From The Sky evoca un po’ troppo), ed è probabilmente vero che i testi intimistici e un po’ depressi finiscono per prendersi un po’ troppo sul serio, ma se qualcuno desse Tell Myself in mano ad una band soul con tanto di sezione fiati, ne verrebbe fuori probabilmente la migliore soul-ballad alla Otis Redding dell’anno. Disco comunque consigliato agli amanti delle tinte tenui ed autunnali, Traces lascia ancora l’impressione di non essere il titolo giusto per promuovere Peter Bradley Adams tra i grandi.

Nicola Gervasini

sabato 19 dicembre 2009

HOOTS AND HELLMOUTH - The Holy Open Secret



Buscadero
Dicembre 2009


Scandagliando tra le mille uscite indipendenti della musica americana capita di incappare in qualche deliziosa piccola sorpresa come questo The Holy Open Secret, secondo album degli Hoots And Hellmouth. Nati come duo nel 2005 formato da Sean Hoots e Andrew "Hellmouth" Gray, entrambi voce e chitarra, la band si è completata con l’aggiunta del mandolinista Rob Berliner e del bassista John Branigan, diventando uno degli appuntamenti live più richiesti nella zona di Philadelphia. Per spiegare il loro stile potremmo anche citare alcuni nomi che hanno seguito in tour come gruppo spalla (Heartless Bastards, Langhorne Slim, Grace Potter), vale a dire tre simboli di potenza, folk moderno e tradizione, esattamente gli elementi che troviamo in questi frizzantissimi dieci brani. Pur mantenendo un impianto prettamente acustico, la musica degli Hoots And Hellmouth si figura essere particolarmente aggressiva e movimentata, quasi un gruppo rock in versione unplugged, come dimostrano episodi da cowboy-punk come You And All Of Us e l’irruente Watch Your Mouth, ma, appena possono, trovano subito il giusto registro per offrire ballate melodiche come Three Penny Charm o momenti riflessivi come Ne’er Do Well. Senza sconvolgere nessun equilibrio della musica moderna, gli Hoots And Helmouth dimostrano già una discreta personalità nel non ricalcare troppo schemi altrui, anche se forse qualcuno potrebbe sentirci molto di Conor Oberst nell’iniziale Root Of The Industry, oppure dello stesso Langhorne Slim nelle stravaganze acustiche di Dishpan Hands, se non magari mille altri esempi alla Randy Newman per l’esperimento jazzy di The Family Band. Ma episodi come la travolgente What Good Are Plowshares If We Use Them Like Swords?, con il suo penetrante organo soulful, o il tour de force della acustiche di Known For Possession, rendono bene anche in studio la loro veemenza live. Chiude il disco la divertente Roll, Brandywine, Roll e tutti a casa in tempi brevi. Disco consigliatissimo se amate gli intrecci di strumenti a corde (chitarre, banjo, mandolini) e se ancora vi state chiedendo che disco avrebbero potuto fare i Clash realizzando un album “americano” senza spina.
Nicola Gervasini

mercoledì 16 dicembre 2009

ELVIS PERKINS - The Doomsday EP


Buscadero
Dicembre 2009


Chi sia Elvis Perkins (e di chi sia figlio…) diamo ormai per scontato lo sappiate, altrimenti correte subito a reperire i suoi unici due album (Ash Wednesday del 2007 e Elvis Perkins In Dearland di quest’anno), perfetti esempi del nuovo folk indipendente, quello che fa di tradizione e sperimentazione un unico credo. The Doomsday EP è un piccolo addendum al recente disco, cinque outtakes che non avrebbero trovato spazio nel prossimo disco perché indissolubilmente legate alle sessions dell’acclamato secondo album. In questi casi un simile oggetto nasce inevitabilmente rivolto ai fans più scalmanati, anche se bisogna segnalare come lo stato di grazia di Perkins fa si che anche in questi inediti ci sia materiale imperdibile. Il brano del titolo è presente sia nella versione già ascoltata nell’album, ma anche in una versione funerea e rallentata, intitolata appunto Slow Doomsday, che risulta essere anche più affascinante. Per il resto nel lettore passano un’acida rilettura del traditional Gipsy Davy, certamente diversa da quelle che già sicuramente possedete (da quelle di Guthrie padre e figlio, alle tante risentite in questi anni), una Stay Zombie Stay che risulta essere uno strambo e claudicante folk, molto vicino a quelli del suo primo disco, fino alla sorprendente Stop Drop Rock And Roll, forse uno dei primi esempi di “rockabilly-indie”, una specie di Highway 61 Revisited in salsa moderna dove le codifiche del rock and roll più classico saltano completamente tra percussioni indiavolate e assoli di chitarra old-style. Ancora meglio Weeping Mary, spiritual corale che conclude quel piccolo viaggio/omaggio nella tradizione americana che è questo piccolo cd. Non ve lo spacciamo come imprescindibile perché il genio di Perkins è forse più evidente quando “fa l’Elvis Perkins” e non quando si mette a giocare con i generi come in questo caso, ma che siano venti minuti spesi bene è affermazione che rilasciamo senza remore.
Nicola Gervasini

sabato 12 dicembre 2009

IL MEGLIO DEL 2009









FELICE ANNO 2009!





















I MAGNIFICI 10

1 FELICE BROTHERS - Yonder is The Clock
2 LUCERO -1372 Overton Park
3 BONNIE PRINCE BILLY - Beware
4 WILCO - (The Album)
5 TOM RUSSELL-Blood And Candle Smoke
6 BLACK CROWES -before the frost / until the freeze
7 BLACK JOE LEWIS & the honeybears - tell 'em what your name is!
8 IAN HUNTER - Man Overboard
9 CHUCK PROPHET - Let Freedom Ring!
10 WILLIAM ELLIOTT WHITMORE – Animals In The Dark

Quest'anno NICKNAME premia i Felice Brothers, probabilmente il miglior esempio di come riuscire ad apparire moderni e non risaputi pur restando una band roots-oriented a tutti gli effetti. Bene i LUCERO, il loro miglior disco di sempre, il rock and roll fatto di chitarre, energia e pure fiati non muore, e qui ci sono anche grandi canzoni. Conferma, anzi, qualche cosa ancora più da WILL OLDHAM AKA BONNIE PRINCE BILLY, uno dei suoi dischi più belli di sempre. Non deludono i WILCO, sempre a livelli eccelsi, sono finalmente tornati a fare cose importanti i Black Crowes, Chuck Prophet, mentre ricordatemi quando Ian Hunter ha sbagliato un colpo che non lo ricordo più.....album neri dell'anno il frizzantissimo Black Joe Lewis e il gospel rurale di WHITMORE. E ovviamente TOM RUSSELL, penna d'oro aiutato dai Calexico per un grande album




Dischi Caldi:

11 RYAN BINGHAM - Roadhouse Sun
12 ROBYN HITCHCOCK - Goodnight Oslo
13 DAVE RAWLINGS MACHINE - A Friend Of A Friend
14 CHRIS ISAAK - Mr. Lucky
15 JAY FARRAR & BEN GIBBARD- One fast move or…
16 SUBDUDES - Flower Petals
17 MICKEY CLARK - Winding Highways
18 ELVIS PERKINS - Elvis Perkins in Dearland
19 JOSHUA JAMES - Build Me This
20 HOWARD ELLIOTT PAYNE - Bright Light Ballads



gli altri OK dell'anno


21 WILD SPECIALTIES - beautiful today
22 AMY SPEACE - The Killer In Me
23 BARZIN - notes to an absent lover
24 BUDDY & JULIE MILLER - Written in chalk
25 DANNY SCHMIDT - Instead the Forest Rose to Sing
26 BLUE RODEO - All The Things I Left Behind
27 JASON ISBELL - Jason Isbell and the 400 Unit
28 ISRAEL NASH GRIPKA - NY Town
29 TIM EASTON - Porcupine
30 DAN AUERBACH - Keep it Hid
31 MUMFORD & SONS - Sigh No More
32 ROBERT EARL KEEN - The rose Hotel
33 WILLEM MAKER - New Moon Hand
34 THE DUKE & THE KING - Nothing Gold Can Stay
35 JASON LYTLE - Yours truly, the commuter
36 DEEP DARK WOODS - Winter Hours
37 STAR ANNA & the laughing dogs - the only thing that matters
38 CRACKER - Sunrise in the Land of Milk and Honey
39 HOOTS AND HELLMOUTH - The Holy Open Secret
40 DEREK TRUCKS BAND - Already Free
41 CHRISTY MOORE - Listen
42 LEVON HELM - Electric Dirt
43 RAMBLIN JACK ELLIOTT - A Stranger Here
44 DINOSAUR JR - Farm
45 HEARTLESS BASTARDS - The mountain
46 SON VOLT - American Central Dust
47 RICHMOND FONTAINE- We used to think.....
48 RUTHIE FOSTER - The Truth According to Ruthie Foster
49 GREAT LAKE SWIMMERS - Lost Channels
50 BRENDAN BENSON - My Old, Familiar Friend


3 Canzoni (non comprese tra quelle della top 10)

1 Shampoo - Elvis Perkins
2 Cheater's Town - Chris Isaak
3 Daniel - Joshua James


LIVE ALBUM:


1 LEONARD COHEN - Live in London
TOM PETTY & The Heartbrekers - Live anthology
ex aequo
3 ERIC CLAPTON-STEVE WINWOOD -


CONCERTI:

BRUCE SPRINGSTEEN - TORINO
GASLIGHT ANTHEM - MILANO
ROBYN HITCHCOCK - MILANO
DINOSAUR JR - MILANO






PREMIO DELUSIONE DELL'ANNO
DAVID GRAY - Draw The Line



PREMIO BOLLITO DELL'ANNO
(aka...elettroencefalogramma ormai piatto...)

1 U2 - No Line on the Horizon
- ormai definitivamente morti
2 Neil Young-Fork the road
- preoccupante
3 Steve Earle-Townes
- lo stiamo perdendo...dottore!
4 Pearl Jam - Backspacer
- danno timidi segnali di vita...ma ormai vegetano
5 Bruce Springsteen- Working on a Dream
- quando entra in uno studio muore, poi esce e torna in vita....c'è speranza ancora per lui
nota:
(Bob Dylan non ci entra d'un soffio perchè il suo Together through life è meglio di tutti questi,....ma rischia...uh se rischia....)

martedì 8 dicembre 2009

MATTHEW RYAN - Dear Lover


23/11/2009
Rootshighway


Niente da fare, neanche questa è la volta buona per risolvere il difficile rapporto tra canzone d'autore e elettronica, uno dei crucci di tanti eroi della canzone americana (Mellencamp, Prophet, McDermott, la lista di tentativi è lunga). Matthew Ryan è solo l'ultimo che ci sta credendo ancora, e Dear Lover doveva essere nelle sue intenzioni lo zenith di una sperimentazione che è iniziata con qualche registrazione casalinga e ha avuto i primi irrisolti step con il progetto degli Strays Don't Sleep e l'album From a Late Night Highrise, ma anche stavolta dobbiamo registrare solo qualche buon risultato, ma non un vero e proprio successo. Auto-prodotto e auto-distribuito sfruttando le infinite possibilità del mondo web, Dear Lover porta alle estreme conseguenze il tentativo di modernizzare un tipo di struttura dei brani che resta inesorabilmente classica, in quanto da qualunque parte le si rigirino, queste canzoni hanno il marchio di fabbrica di Ryan esattamente come quelle che scriveva dieci anni fa: si parla di angoscia (The Wilderness), solitudine (Your Museum), rapporti umani difficili (Dear Lover) e tutto quanto ha sempre caratterizzato l'affascinante mondo lirico di Matthew. E qui sta forse il problema, nel fatto che ancora una volta ci troviamo di fronte ad un artista che decide di ricorrere alle strumentazioni elettroniche senza prima cambiare il proprio modo di affrontare la scrittura, con il risultato che spesso e volentieri si ha la sensazione di un utilizzo aprioristico di drum-machines e effetti di ogni tipo, quindi, a conti fatti, per nulla necessario. Dividiamo dunque i brani di questo album in tre categorie: prima gli episodi dove l'utilizzo delle tastiere sostituisce perfettamente quello di chitarre e percussioni - anzi, donano forse un qualcosa in più - come l'iniziale City Life, o anche il dialogo tra il drumming nervoso e il tocco di piano di We Are The Snowman. Poi ci sono gli episodi più classici (ad esempio The World Is…, oppure Some Streets Lead Nowhere e il finale The End Of A Ghost Story, che aggiungono pianoforte e finti archi al menu), che vedono in campo lo stesso Ryan dei tempi di Concussion, anche se forse solo la sofferta Your Museum riesce a eguagliare quella perfetta rappresentazione degli abissi umani. E infine ci sono una serie di esperimenti mal riusciti, che vedono gli arrangiamenti confusi, le distorsioni inutili e i ritmi irrisolti della title-track e di The Wilderness (e qui peccato davvero, perché il brano meritava qualche idea migliore), brani semplicemente ordinari come P.S., o veri e propri disastri come Spark, che non consideriamo brutta in quanto brano techno-dance, ma perché anche come techno-dance suona vecchia, con quel controcanto del DJ tanto in voga negli anni 90. Fa davvero sorridere in questo caso pensare che una semplice chitarra acustica nel 2009 suona più moderna, e perfino più alla moda se vogliamo. Questo è il Ryan testardo e solitario di oggi, prendere o lasciare: prendiamo naturalmente, ma non ci toglierete dalla testa che Dear Lover sappia molto di occasione persa. (Nicola Gervasini)

sabato 5 dicembre 2009

ROSIE FLORES - Girl Of The Century


18/11/2009
Rootshighway



Ci guardiamo alle spalle e ci rendiamo conto con una certa sorpresa di non aver mai affrontato un disco di Rosie Flores in questi quasi dieci anni di vita del nostro sito. Curioso per una delle voci femminili di Austin più invitate come guest star in studio dal mondo della canzone roots, un po' meno sorprendente se si realizza che dopo i suoi anni 90, copiosi di dischi e riconoscimenti nel genere (a fine anni 80 ebbe anche l'onore di qualche hit da classifica), negli ultimi dieci anni la Flores ha licenziato un solo nuovo album (Speed Of Sound dell'ormai lontano 2001) e alcuni prodotti di riciclo (un live, un'antologia per la Hightone e un disco natalizio). Girl Of The Century può dunque essere salutato come una specie di ritorno, oppure come l'inizio di una nuova vita, a 59 anni suonati, con un nuova etichetta di valore (la Bloodshot) e nuove amicizie per rilanciarsi.

Nata nel mondo rockabilly degli anni 80 e virata verso un country-rock più nashvilliano nel corso della carriera, Rosie Flores ha trovato il proprio nuovo pigmalione artistico nel sempre attivissimo Jon Langford (Mekons, Waco Brothers), che per l'occasione riesuma il nome del supergruppo dei Pine Valley Cosmonauts (cercate i loro dischi, sono dei veri e propri happening del mondo Bloodshot), in questo caso composti da Joe Camarillo, Pat Brennan, Tom V.Ray e il bravissimo chitarrista John Rice. Quello che salta subito all'orecchio di questo disco è l'intenzione di realizzare una sorta di presentazione antologica del personaggio Flores per le nuove generazioni, con un occhio più volto a quello che è stato, che a quel che potrebbe essere. Peccato, perché a Langford non manca certo il coraggio dei buoni azzardi, ma qui si ripropone il mito della rock and roll girl nelle cover di I Ain't Got You di Calvin Carter e This Little Girl's Gone Rockin' di Bobby Darin e si bazzicano iper-classici come Get Rhythm di Johnny Cash con noncuranza dello spessore storico di quanto si sta facendo.

Nulla di male dunque se vi piacerà questo disco, cullarsi sulle frizzanti note di classici iper-rodati o nuovi originali che non fanno male a nessuno (Langford fornisce materiale di buona fattura con Last Song e Halfway Home, la Flores si fa aiutare da altri co-autori per scrivere la title track e la divertente The Cat's In The Doghouse) è in fondo una delle ragioni d'essere di questo tipo di roots-music, e in un certo senso questo disco finisce di diritto in quel mondo che si accontenta di rileggersi con piena autoreferenzialità che ci hanno raccontato il John Fogerty o la Rosanne Cash più recenti, anche se con più personalità. Noi invece pretendiamo di più, contando che Girl Of The Century sancisce il definitivo ridimensionamento di Rosie Flores a personaggio di contorno, una deliziosa ciliegina senza la quale la torta sarebbe stata ugualmente buonissima.
(Nicola Gervasini)

venerdì 4 dicembre 2009

BEN BEDFORD - Lincoln's Man




Rootshighway
Novembre 2009




Nel mondo del "fai da te" del mercato discografico capita che un cd del 2008, di un autore esordiente come Ben Bedford, venga distribuito in Italia quando ormai è già disponibile l'opera successiva (Land Of The Shadows). Ben venga però il ritardo, se permette di segnalare qualche disco interessante perso nei meandri del mondo come questo Lincoln's Man, primo disco di un cantautore di vecchia scuola (tra un Gordon Lightfoot d'annata e un Loudon Wainwright III quando si prende sul serio), che ha probabilmente passato più tempo sui libri che sulla chitarra. Lui stesso, nella nota di copertina, sottolinea come il disco nasce dall'indecisione tra il fare il cantautore o il professore di storia, e, scelta la prima opzione, le dieci canzoni di Lincoln's Man altro non sono che le dieci storie che non lo lasciavano dormire la notte e che avrebbe da tempo voluto raccogliere in un libro. Storie di guerre, povertà, storie d'America insomma, scritte con piglio alla Steinbeck e con tanto di brano celebrativo al mito Kerouac (Goodbye Jack). Seguire i testi con il libretto è il godimento massimo qui, visto che la penna è davvero invidiabile, e non mancano le emozioni forti quando il lettore arriva a Migrant Mother o a Virginia Girls. Quello che ancora manca a Bedford è un senso della misura nel dosare parole e musica, anche perché ha la tendenza ad una verbosità che porta i minutaggi quasi sempre oltre i cinque minuti, a fronte di una voce monotona e troppo poco particolare, con conseguente appiattimento del suono. Salva il tutto lo splendido dobro di Chas Williams, anche produttore del disco, al quale speriamo venga dato più spazio nel secondo capitolo. Saper fare "dischi da leggere" senza annoiare è dote di pochi, grandi talenti; a Bedford il consiglio di riprovarci con più attenzione al lavoro in studio. (Nicola Gervasini)

mercoledì 2 dicembre 2009

BAP KENNEDY - Howl On


09/11/2009
Rootshighway



Figlio minore di una generazione di folker nord-britannici (dai Pogues ai Waterboys, per arrivare agli Hothouse Flowers e ai suoi Energy Orchard), irripetibile quanto ormai dispersa tra drastici cali d'ispirazione e rovine fisiche, Bap Kennedy non molla il colpo e continua imperterrito a seguire la sua strada. Un sentiero che dai pascoli della verde Irlanda porta inevitabilmente a qualche highway americana, ormai talmente calato nella parte di un "Hillbilly Shakespeare", da aver prodotto con questo Howl On una sorta di concept album sull'America, vista con i suoi occhi da ragazzino negli anni sessanta. E così dopo l'omaggio alla musica d'Irlanda della sua ultima fatica (The Big Picture del 2005), Howl On ribadisce la sua appartenenza stilistica fin dal primo brano, l'accorata America che racconta dei tanti piccoli Belfast Cowboys che vivevano aspettando notizie da quell'oltreoceano mitico e mitizzato. Il racconto prende spunto dallo stupore per la visione dei primi uomini sulla luna ("They took Hank Williams to the moon" canta in Cold War Country Blues), vero simbolo di un sogno americano che non aveva confini, almeno agli occhi dei piccoli irlandesi che dovevano fare i conti con la loro società lacerata da povertà e diatribe religiose.

L'America era dunque il simbolo della giustizia (se ne parla in The Right Stuff, piccola ballata capolavoro, con intarsi di chitarre e dobro quasi da frontiera texana), ed era bello non accorgersi da bambini innocenti della differenza tra realtà e finzione (Irish Moon gioca sullo strano caso di omonimia tra il Michael Collins che fu il terzo uomo dell'equipaggio dell'Apollo 11 e il noto attivista irlandese, e sulla conseguente confusione che questo generò nelle menti di un bambino). E poi ovviamente l'America del rock, quella del festival di Woodstock, qui raccontata tramite una versione di Hey Joe che trasforma in Irlanda ciò che Willy DeVille anni fa riportò in Messico, con la partecipazione della chitarra di Henry McCullough, un nome che qualcuno potrà ricordare nei Wings di Paul McCartney, ma che a Belfast è riverito come "l'unico irlandese presente a Woodstock" (era con Joe Cocker).

Nella seconda parte Kennedy perde leggermente il ritmo del racconto, se è vero che dopo la bellissima title-track, affiora qualche brano (la sequenza Brave Captain, The Heart Of Universal Love e la folk Last Adventure ad esempio) che avrebbe necessitato di più nerbo negli arrangiamenti (il sound prettamente acustico richiama molto quello delle produzioni nashvilliane di fine anni sessanta, quasi in zona John Wesley Harding di Dylan diremmo). Si arriva comunque soddisfatti al finale di Ballad Of Neil Armstrong, una ninna nanna in chiave country che manda i bimbi di Belfast a letto a sognare di diventare il loro eroe americano che passeggiava sulla luna. Il vero sogno americano invece sarebbe già finito pochi anni dopo, con la presa di coscienza del Vietnam, la crisi economica, e la scoperta di un mondo che non era proprio come Walt Disney lo aveva disegnato.
(Nicola Gervasini)

sabato 28 novembre 2009

JOSHUA JAMES - Build Me This


Novembre 2009
Buscadero



Così come il buon giorno si vede dal mattino, i bei dischi si riconoscono spesso fin dalle prime note. Basta quindi la corale Coal War, stupendo brano sospeso a metà tra uno spiritual, una work-song di protesta e il Paul Simon di Diamonds On The Soles Of Her Shoes, per capire che sta succedendo qualcosa di importante in questo Build Me This, secondo atteso disco di Joshua James. Succede ad esempio che ci troviamo davanti ad un artista già in grado fin dal secondo disco di cambiare suono, stile e registro delle proprie canzoni, di osare arditi arrangiamenti, anche pesanti e magniloquenti in alcuni casi, laddove avrebbe potuto continuare a raccogliere i consensi avuti insistendo sullo stile intimo e sospirato del suo primo disco (il buon The Sun Is Always Brighter ) o dei successivi EP. Lui invece, in combutta col giovane amico e produttore Shannon Edgar, si inventa un disco strafottente, che azzarda pure impensabili (per lui ovviamente) hard-blues come Black July, irish-folk balzellanti alla Waterboys (Annabelle) e tocca pure l’epica da cowboy con Mother Mary, un brano che Sergio Leone avrebbe utilizzato per un nuovo spaghetti western al fianco di Outlaw Pete di Springsteen. Normale quindi che chi si aspettava la nuova colonna sonora delle proprie disgrazie, si possa sentire spiazzato davanti all’imponenza di certi muri del suono ottenuti sfruttando tutti i registri delle tastiere di Phil Parlapiano, e magari inizialmente cerchi conforto nei brani più chiusi come Weeds, Pitchfork o In The Middle, i più vicini al James dell’esordio, quanto alla fine i meno interessanti. E magari lamenteranno l’appeal radiofonico sospetto (quanto irresistibile) di Magazine, brano degno del miglior David Gray nel descrivere la fine di un rapporto trovando il giusto equilibrio tra tragicità, melodia e un occhio al marketing discografico. James ha rischiato tanto in questo disco, e questa è oggi una dote rara, perché è vero che ogni tanto qualcosa non funziona, che il disco alla fine appare sfilacciato e che l’amalgama presenta qualche grumo ancora da sciogliere, ma presi singolarmente anche brani che appaiono minori come la country-song Lawn Full Of Marigolds o la sospesa Kitchen Tile conservano una grande tensione emotiva alla Ray LaMontagne, probabilmente il nome che più James aveva in mente. L’apoteosi arriva con Daniel, non quella di Elton John, ma che proprio all’Elton John più abile a giocare con cori, tastiere, teatralità e spinta drammaticità, finisce per richiamarsi. Buono anche il finale con la poetica Wilted Daisies e l’ultima riflessione acustica di Benediction, giusta chiusura di un disco che conferma James come uno dei migliori talenti di questi ultimi anni, sebbene una certa incompletezza generale faccia pensare che possa ancora andare oltre.
Nicola Gervasini

giovedì 26 novembre 2009

VAGABOND OPERA - The Zeitgeist Beckons


Rootshighway
11/11/2009


Non ci proviamo nemmeno a catalogare questo The Zeitgeist Beckons, se non come un pasticcio folk tra operetta e musica balcanica, portato in giro per Stati Uniti ed Europa dai Vagabond Opera, band dal nome già di per sé esaustivo sulle loro peculiarità. Sono musicisti da strada, con batterie e percussioni di fortuna, contrabbassi consumati dall'asfalto e una divisa circense d'ordinanza per tutti i membri maschili, eccezion fatta per la primadonna Lesley Kernochan, guest-star che veste i variopinti panni della Diva. La Kernochan è artista attiva anche in proprio, con singolari album solo vocali (se ascoltate il suo Undulating del 2006 troverete quello che potrebbe essere un disco di Bobby McFerrin cantato da Bjork), mentre il leader Eric Stern è un fisarmonicista/pianista con voce tenorile innamorato della musica dell'est europeo, che non a caso si ritrova anche nei credits dell'ultima "operetta" dei Decemberists (The Hazards Of Love).

Proprio alla band di Colin Meloy si può ricondurre lo spirito di questo disco, che segue uno strampalato libretto da Grand Guignol (il plot è: nelle catacombe di Parigi uno scienziato pazzo fa rivivere una Golem femmina e…ecc..ecc..) per unire cover e originali apparentemente inconciliabili tra loro in ipotetici cinque atti (in verità sono solo tre, perché nel secondo "non succede nulla di interessante" per farci una canzone, mentre il quarto è "uguale al terzo, ma all'incontrario"). Trovateci pure echi di Goran Bregovic, dei Gogol Bordello, sicuramente del Tom Waits di Frank's Wild Years (anche se qui viene ri-stravolta Tango 'til They're Sore da Rain Dogs), altrimenti noi non siamo in grado di trovare paragoni nel mondo dell'opera romantica italiana quando a finire nel calderone sono nientemeno che Giuseppe Verdi (Welcome To The Opera! riprende la Traviata), la Fedora che Alberto Colautti scrisse per Umberto Giordano (cantata in italiano traballante in Chimaeras Be Met), il compositore russo Dmitrij Šostakovic (Russian Jazz Waltz), tradizionali bulgari (Bulgar Romani), e non poteva ovviamente mancare Jacques Brel (nel classico Amsterdam, un cavallo di battaglia anche del primo David Bowie).

Di tutto questo minestrone la cosa migliore resta la bella performance della Kernochan nella Milord che fu di Edith Piaf (che è anche un personaggio della sgangherata storia), mentre i brani scritti dai vari membri della band finiscono per essere divertenti, ma in ogni caso funzionali a tenere insieme il concept del disco. Il risultato è senza mezzi termini un bel casino di stili, che apprezzerete solo se siete in grado di by-passare lo shock di sentire classiche folk-song cantate con puro stile tenorile/operistico da Stern. Quello che è certo è che sullo stesso terreno abbiamo di recente sentito opere più personali (pensiamo ai francesi Moriarty ad esempio), o teatrini meno confusionari (ad esempio quello degli inglesi Last Man Standing).
(Nicola Gervasini)

venerdì 20 novembre 2009

PORT O'BRIEN - Threadbare



Novembre 2009
Buscadero



Prova importante e attesa questa per i Port O’Brien, band californiana che licenzia con Threadbare il terzo disco. Il loro All We Could Do Is Sing resta a conti fatti una delle più deliziose sorprese indie-folk della scorsa annata, un disco nato per metà in Alaska, dove il leader Van Pierszalowski ha scritto molti brani mentre seguiva il padre a caccia di salmoni su un peschereccio. Progetto nato un po’ per caso con l’amica/cantante/songwriter Cambria Goodwin (panettiera di professione), quella dei Port O’Brien è ora una piccola barca che ha arruolato altri comprimari (al momento sono Ryan Stively, Gram Lebron, Tyson Vogel, ma cambiano spesso a seconda dei tour) per un viaggio davvero particolare. Che il gruppo sia in verità un duo è anche confermato dal video del singolo My Will Is Good, dove i compassati Van e Cambria si esibiscono tra piccole ginnaste. Provatevi, se ci riuscite, a chiedere loro che genere di musica suonano, vi risponderanno con una sonora risata, tanto basta per capire che tocca a noi definire in qualche modo questo freak-folk generalmente acustico (in questa avventura affiora qualche elettrica in più), che tanto rimanda alla Akron Family, con quell’innato gusto pop di fondo che ha portato molta stampa americana a paragonarli ai Pavement, gruppo con cui condividono poco del sound, ma molto dell’attitudine da anti-star. Diciamo subito che Threadbare ribadisce quanto di buono detto su di loro, anche se lascia un po’ di rammarico in quanto non offre poi grosse variazioni rispetto alla loro ricetta iniziale. I brani corali restano il loro marchio di fabbrica, e se con Oslo Campfire o con la title-track trovano la melodia giusta, in alcuni casi l’amalgama rallenta un po’ troppo il ritmo (In The Meantime o Next Season). In particolare è quando sale in cattedra Pierszalowski che l’album sembra scagliare le frecce migliori (My Will Is Good, Sour Milk/Sad Water), trovando il proprio zenith nella lunga e centrale Calm Me Down, sorta di lenta Cortez The Killer in salsa indie, e in una Leap Year che richiama addirittura i momenti più tormentati dei Dinosaur Jr. Purtroppo il finale non è altrettanto coinvolgente, con una Goodwin che si addormenta un po’ troppo sul pianoforte di Darkness Visible, una Love Me Through godibile quanto fin troppo leggerina, e una ripresa dell’iniziale High Without The Hope che riporta le note nell’atmosfera liquida e marina della copertina. Conferma a buoni livelli dunque, ma anche mancato passo in avanti: Threadbare ha l’aria del classico disco di passaggio, ma dove sia diretto lo scafo dei Port O’Brien pare ancora difficile da intuire.
Nicola Gervasini

mercoledì 18 novembre 2009

THE O'S - We Are the O's


5/11/2009
Rootshighway




Esiste nella musica americana moderna una corrente che, più che "revivalistica", definiremmo proprio reazionaria, che in qualche modo teorizza (o semplicemente fomenta) la restaurazione della roots-music degli anni '80. Parliamo di artisti che pagherebbero per poter essere ricordati come i ri-scopritori di un certo suono rurale, alla Long Ryders o Green On Red per intenderci, o parliamo ad esempio degli O's, duo esordiente che riporta subito alla mente l'epopea dei BoDeans, o ancor più quella dei loro seguaci di metà anni novanta come Billy Pilgrim e Jackopierce. We Are The O's è il loro manifesto di presentazione, undici brani che sembrano essere stati risputati fuori da un mondo in cui il banjo era visto come una spada laser alla Guerre Stellari per combattere lo strapotere della forza nera dei sintetizzatori degli anni 80. Taylor Young e John Pedigo vengono da Dallas, e tra chitarre, mandolini e kick-drums, riescono in due a riempire un suono che pare quello di una band, anche grazie al buon lavoro di amalgama e produzione di Jeff Halbert, ingegnere del suono della Rickie Lee Jones più recente (ma anche produttore dei Backsliders, per tornare al discorso di restaurazione del roots che fu…). La loro biografia ufficiale fa quasi tenerezza, con quella lunga digressione su come il loro fine non sia quello di far soldi, conquistare ragazze facili o guadagnare successo, e nemmeno quello di rivivere una vita on the road fatta di alcool e chilometri macinati ogni giorno, ma semplicemente quello di scrivere canzoni, e con quelle fare festa. Una filosofia commovente, che sembra davvero quella che animava una generazione di musicisti nati per un vero credo artistico com'era quella dei roots-rocker di venticinque anni fa, e che in fondo fa piacere ritrovare in quest'era, dove fare musica sembra essere diventato un passatempo come altri, accessibile a tutti come l'andare in palestra e bere aperitivi durante l'happy hour delle sette di sera. Avevamo già più volte incontrato John Pedigo con i suoi precedenti gruppi (i cowboy-punk Slick 57 e i più Neil-Young-oriented Rose County Fair), tutti usciti dal calderone indipendente di Dallas, ma qui la liaison con il nuovo compagno ha partorito un bel disco di dolci e convinte folk-songs, con alcune punte di buon songwriting in Don't Waste Your Day, Fast As I Can e California. Per il resto il disco soffre della mancanza di grandi alternative negli arrangiamenti, ancorati al continuo intreccio da mandolino e acustiche, ma la leggerezza quasi pop di certe melodie (One Way Ticket o You've Got Your Heart) e la capacità di "fare la canzone" anche solo con un sapiente impasto delle due voci (come sapevano fare i migliori Bodeans prima che s'impigrissero), fa si che questo We Are The O's scorra senza intoppi fino alla fine. Lontano dall'essere un disco che segna la strada, resta comunque un ottimo documento del linguaggio rock di una provincia americana che proprio non ne vuole sapere di uscire dal suo isolamento. (Nicola Gervasini)

domenica 15 novembre 2009

ROBERT EARL KEEN - The Rose Hotel


12/10/2009
Rootshighway


Ci ha messo ben quattro anni Robert Earl Keen a dare un seguito all'acclamato What I Really Mean, il suo disco più venduto (non ci voleva molto in fondo, vista la sua vita ben lontana dai margini del mercato discografico), nonché uno dei suoi titoli in cui ogni tanto ci si dimentica di pensare quanto belle sono le sue canzoni quando sono interpretate da altri. The Rose Hotel conferma lo stato di grazia di questo texano dagli occhi troppo dolci per poter vestire i panni di un credibile outlaw, soprattutto grazie ad una bellissima produzione confezionatagli da Lloyd Maines e al savoir faire di bravi musicisti, tra cui spiccano il mandolinista Rich Brotherton e la fisarmonica di Bukka Allen. The Rose Hotel appare dunque un disco musicalmente molto vario e volutamente pensato per oltrepassare lo scoglio delle limitate doti espressive della voce di Keen, un tallone d'achille che già impedì ai suoi bei dischi degli anni 90 di diventare dei classici (pensiamo a Gringo Honeymoon o a Picnic, che flirtavano non poco con l'alt-country dell'epoca).

La partenza è scoppiettante: The Rose Hotel è un classico brano di frontiera, materiale adatto per un ipotetico nuovo disco dei Flatlanders per intenderci, mentre la cover di Flying Shoes di Townes Vand Zandt appare azzeccatissima, primo perché in questo caso la vocalità di Keen è molto simile a quella di Townes, secondo perché Maines si inventa un giro di basso pulsante e minaccioso che dona una nuova veste ad un brano per cui non esistono aggettivi di apprezzamento sufficienti a definirne la bellezza. Che il team abbia una marcia in più lo dimostra anche Throwing Rocks, un banalissimo rockettone da bar nella sostanza, come ce ne sono mille in tutti i dischi di Austin, ma che vanta un devastante finale con belle voci black femminili, il banjo di Danny Barnes che da spettacolo, e persino il sempre compassato Keen che perde le staffe per pochi secondi. Piace anche il divertente siparietto rock di 10.000 Chinese Walk Into A Bar, racconto cinematografico condotto con l'amico Billy Bob Thornton, con il suo riff decisamente rock a cui fa subito da contraltare il ritmo scanzonato e saltellante di un reggae impolverato come Something That I Do.

Come spesso succede ai suoi dischi, la seconda parte perde un po' di nerbo, e qua e là appare qualche brano non all'altezza del contesto (On And On e Village Inn), ma Keen fa comunque a tempo a piazzare una bella drunk-song come Goodbye Cleveland, un ottimo duello con Greg Brown nella sua Laughing River e un sentito e riuscito omaggio a Levon Helm in The Man Behind The Drums. Finale con bel country corale (Wireless In Heaven) e tutti a casa soddisfatti, consci che lo spettacolo è stato pieno di difetti, forse più attento a strabiliare e meno concentrato sulle canzoni del solito, per quanto genuino e confezionato con capace convinzione. Visto che ci siamo davvero divertiti, basta anche così.
(Nicola Gervasini)

venerdì 13 novembre 2009

JOE PERNICE - It Feels So Good When I Stop


30/10/2009
Rootshighway





L'idea di base è intrigante, e chissà quanti scrittori hanno avuto la tentazione di realizzarla senza averne però le doti necessarie: scrivere un racconto con in mente alcune canzoni ben precise, e successivamente registrarle in un cd che funga da colonna sonora. Una meta-arte rara e difficile quella di dare suoni alle parole invece che alle immagini, ma Joe Pernice l'ha affrontata con coraggio e convinzione. Lui è un veterano della canzone d'autore della provincia americana fin dagli anni 90 (ricordate gli Scud Mountain Boys, l'alt-country band di casa Sub Pop?), e negli ultimi anni anche paladino di una via "pop" e leggera della roots-music americana portata avanti (con risultati altalenanti) dai Pernice Brothers. Ma Pernice è anche uno di quegli artisti eclettici che amano sperimentare forme alternative di comunicazione, proprio come questa "novel soundtrack" intitolata It Feels So Good When I Stop. Pernice non è nuovo nella narrativa, qualche tempo fa scrisse un divertente racconto intitolato Meat Is Murder, storia autobiografica di un fanatico degli Smiths negli anni 80, e la novella (che ha lo stesso titolo dell'album) che funge da traino a questo disco è una classica storia di formazione, con amori, delusioni e ironie alla Nick Hornby sul mondo degli "adulti" e sui trentenni mal-cresciuti. Il disco invece è stato realizzato con gli stessi collaboratori che lo affiancano nelle avventure dei Pernice Brothers (Peyton Pinkerton, Mike Belitsky, il fratello Bob Pernice e altri), ed è una curiosa raccolta di cover in chiave acoustic-pop di brani che spaziano da Soul And Fire dei Sebadoh di Lou Barlow a Chim Cheree, che altro non è che la colonna sonora di Mary Poppins da noi nota come Cam Caminin Spazzacamin. Basta questo per capire lo spirito del progetto, la storia del ragazzo che (non) si fa uomo passa anche attraverso le sue passioni musicali variopinte e trasversali, che spaziano da classici country (That's How I Got To Memphis di Tom T. Hall) ai Dream Syndicate (una buona resa soft di Tell Me When It's Over), dalle discussioni su Todd Rundgren contenute nella storia (e recitate anche nel disco per introdurre la sua Hello It's Me) a quelle su Pat Boone che seguono le old-style I Go To Pieces (una vecchia hit di Del Shannon) e I'm Your Puppet (brano soul del duo Spooner Oldham/Dan Penn che fu un successo dei James & Bobby Purify nel 1966), quest'ultima modernizzata tanto da sembrare un pezzo degli Eels. "Music for fun" in ogni caso, scherzi d'autore per ricordare al mondo testi notevoli come Found A Little Baby di Liam Hayes alias Plush o la suadente Chevy Van (una hit del 1975 di Sammy Johns). Conclude il menu Black Smoke (No Pope), uno strumentale riesumato dai tempi degli Scud Mountain Boys, e fine del divertimento. Ovvio che l'invito è di ascoltare il cd leggendo il racconto, e ancora più ovvio constatare che il progetto resta un divertissement fine a sé stesso senza troppe pretese. Ma a volte è meglio divertirsi così che annoiarsi del tutto. (Nicola Gervasini)

lunedì 9 novembre 2009

THE DUKE & THE KING - Nothing Gold Can Stay


07/10/2009
Rootshighway






Il Duca e il Re nella letteratura americana sono i due imbroglioni che con l'inganno vendettero lo schiavo nero Jim agli zii di Tom Sawyer nel libro Le Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain. Una versione yankee dei nostri Gatto e Volpe collodiani (i due libri sono curiosamente usciti praticamente in contemporanea tra il 1883 e il 1884), ma in genere originati da una tradizione popolare che vuole il truffatore per antonomasia essere un perfetto mix di furbizia e cattiveria, ma anche di fascino e nobiltà. The Duke & The King sono dunque due farabutti della musica d'oltreoceano: il Duca (Simone Felice) è uno dei fratelli terribili che stanno scrivendo le migliori pagine di roots-music degli ultimi mesi (Yonder Is The Clock sembra davvero aver messo d'accordo tutti o quasi), il Re (Robert "Chicken" Burke) è un batterista/DJ spesso utilizzato da George Clinton (ad esempio nel progetto dei Drugs), esperto di battiti elettronici e ammenicoli da funky/hip hop. Ci si potrebbe dunque aspettare uno dei tanti ibridi tra folk e black music, invece qui sta il primo vero imbroglio: Nothing Gold Can Stay è un bel disco di cantautorato americano, con quel piglio da "indie-folker" che spesso veniva vagheggiato anche nei dischi dei Felice Brothers, e che qui trova tutta la propria piena libertà d'espressione. Ed è il disco stesso che inganna non poco: all'inizio sembra un unico piatto sospiro disturbato da qualche rumore elettronico, a volte tendente addirittura ad un barocco pastone psichedelico di voci e tastiere (Lose My Self) che lascia perplessi. Poi però alla lunga le canzoni vengono fuori in tutta la loro potenza, la produzione volutamente lo-fi e home-made non riesce a tenere a freno la bellezza melodica di una The Morning I Get To Hell, l'incisività pop di Still remember Love, il tocco lieve di Suzanne, dove chitarre roots e trombe jazz si intersecano alla perfezione. Sono brani come Summer Morning Rain, gentile folk song senza innovazioni da proporre, che all'inizio ti passano nelle orecchie come il festival del già sentito, ma non ti mollano più e ti chiamano di nuovo di giorno in giorno. E' questo dunque il grande imbroglio del Duca e del Re, l'aver confezionato un cd che sulla carta sembrava solo un avventuroso spin-off della saga dei Felice Brothers in ambiti extra-roots, quando invece è "solo" una bella prova d'autore di Felice, con una produzione intelligente e aperta che ne fa un disco rivolto più al mercato del rock alternativo e indipendente che a quello dell'americana-music. Il grunge ci ha insegnato come spesso i dischi nati da collaborazioni parallele ai grandi nomi (ad esempio Temple Of The Dog, Brad, Mad Season) siano la vera cartina al tornasole dello stato di salute di un gruppo, se non di tutta una scena. Nothing Gold Can Stay ci conferma quindi che se qualcosa di importante sta succedendo in questi mesi, sta sicuramente passando dalle parti dei Felice Brothers. Contando anche che Simone, dei Felice Brothers, è "solo" il batterista. (Nicola Gervasini)

sabato 7 novembre 2009

MASTERS OF REALITY - Pine/Cross Dover


Rootshighway
23/10/2009
Tra i fiori all'occhiello della carriera da produttore di Rick Rubin va sicuramente annoverato il bellissimo esordio dei Masters Of Reality dell'ormai lontano 1988, ancora oggi consigliabile patchwork tra la musica dei Cream (o ancor più i Mountain), Lynyrd Skynyrd e Black Sabbath (dal cui terzo disco prendono il nome) trasportati in pieni anni 80. In tutti questi anni il combo è rimasto attivo come emanazione del solo cantante e chitarrista Chris Goss, nel frattempo divenuto famoso come produttore e sparring partner di Mark Lanegan per molte delle sue avventure discografiche (ha co-prodotto il suo Bubblegum e i dischi dei Queens Of The Stone Age), ma la freschezza e la varietà di stili e idee di quell'esordio non è mai stata ripetuta, se non in parte nel successivo Sunrise on The Sufferbus (1992), disco dove la somiglianza della voce di Goss con quella di Jack Bruce dei Cream veniva glorificata dalla presenza del loro batterista Ginger Baker come membro fisso. Ne è prova anche questo Pine/Cross Dover, album con due titoli e due copertine diverse, ma con un'unica anima da roccioso e monolitico hard rock d'altri tempi, concepito con il batterista John Leamy, unico superstite dei tanti cambi di line-up (e curiosamente presente nel primo disco solo in veste di disegnatore della copertina). Dieci brani caratterizzati da pesanti e ipnotici riff tra Jimmy Page (Dreamtime Stomp sarebbe stata bene su Physical Graffitti) e Tony Iommi (VP In It o Testify To Love), oppure figli di un grunge perduto (Absinthe Jim And Me). La musica di Goss continua a suonare vintage anche quando prova palesemente ad attualizzarla (Worm In The Silk), magari strizzando l'occhio ai White Stripes (The Whore Of New Orleans) o all'hard-blues moderno dei Black Keys (Rosies's Presence). Il disco nel complesso soddisfa la voglia di chitarre old-style, magari senza prendere troppo sul serio i divertenti testi visionari infarciti di figure mitologiche o di "Robert Johnson che vengono da altri universi", ma fa mancare quella fantasia che aveva caratterizzato i loro esordi. E i dodici minuti finali di libera improvvisazione di Alfalfa riescono solo a far venire voglia di riesumare qualche oscura psycho-band con tendenze hard rock di fine anni sessanta, anni in cui questi viaggi spaziali e lisergici erano all'ordine del giorno, e con ben altra portata innovativa. Reazionari al passo coi tempi nel 1988 tanto da diventare rivoluzionari, nostalgici fuori tempo massimo nel 2009: con Pine/Cross Dover i Masters Of Reality confermano il definitivo invecchiamento di una generazione di (ri)scopritori di quel muro del chitarre che aprì la strada all'esplosione del grunge di Seattle. (Nicola Gervasini)

mercoledì 4 novembre 2009

BRANDI CARLILE - Give Up The Ghost


La questione non è tanto chiedersi se Brandi Carlile possa essere o no degna dell'Olimpo del cantautorato femminile americano, quanto arrendersi all'evidenza che nel rock certe alchimie perfette a volte capitano anche un po' per caso. E due anni fa capitò che una delle tante ragazzette nate artisticamente nell'era post-Lucinda Williams, dotata di bella voce e già forte di un discreto disco d'esordio nel curriculum, si ritrovasse nello studio giusto (pagato con i pochi soldi che una major come la Columbia dedica ancora al genere), con il produttore giusto (un T-Bone Burnett particolarmente furbo nel rendere pieno d'anima un suono molto mainstream), che diede il suono giusto alle canzoni giuste. Ma la storia, si sa, si ripete all'infinito, e se il suo The Story resta uno dei più azzeccati dischi femminili del decennio, esattamente come lo fu Trampoline per Tift Merritt, questo Give Up The Ghost ne sancisce l'inevitabile ridimensionamento artistico, esattamente come è successo alla bionda collega con il successivo Another Country.Non parlate di delusione però, che Brandi Carlile non avesse la statura da grande autrice traspariva anche dalle pagine di The Story, semplicemente in questo caso l'intesa con il nuovo produttore Rick Rubin (basta il nome per capire che razza di investimenti si stanno facendo su questa ragazza) non ha creato gli stessi fuochi d'artificio del menage con Burnett. Di chi è la colpa? Parzialmente della stessa Brandi, che per la grande occasione si presenta con un carnet povero di dieci canzoni, con parecchi riempitivi senza grande futuro (la sequenza finale I Will, If There Was No You e Touching The Ground vola davvero basso). Colpa di Rubin anche, immenso artigiano del suono quando la musica si fa estrema (o tutta acustica o ad alto voltaggio hard rock), ma troppo indeciso sulla strada da intraprendere quando deve tenere i toni medi e dimessi richiesti da queste canzonette intime e leggere. Colpa della Columbia anche, e di quella stramaledetta necessità delle grandi produzioni major di avere ospiti di riguardo, abitudine che fa si che nei credits scorra il nome di Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers senza trovarne riscontro ritmico nella musica, o venga mal sfruttata una delle sortite roots di Sir Elton John, che scomoda persino il suo arrangiatore d'oro Paul Buckmaster per risolvere cotanta presenza in Caroline, divertente quanto innocuo episodio che fa rimpiangere davvero le scintille prodotte da Elton con Cindy Bullens (ricordate lo splendido Dream #29?). Le note positive non mancano fortunatamente, e sono tutte concentrate nella partenza di Looking Up (che ha lo stesso suono di The Story), nelle poche notevoli prove d'autore (Dying Day e That Year) e in una Dreams che finalmente tira fuori unghie e rabbia. Troppo poco per la gloria, abbastanza per continuare a nutrire interesse e stima per lei, con il forte sospetto che per il prossimo album dovrà cavarsela da sola senza tanti aiuti così illustri. (Nicola Gervasini)

domenica 1 novembre 2009

WILLY DEVILLE - Cabretta (1977) e Return To Magenta (1978)


La leggenda narra che William Borsey, un giovane scapigliato del Connecticut, un giorno abbia deciso di fare un viaggio a San Francisco con l’intento di trovare musicisti che “avessero un cuore e non solo un ego da soddisfare con assoli di venti minuti”. Quando se ne tornò a New York, sul suo pulmino c’erano il bassista Rubén Sigüenza, e il batterista Tom "Manfred" Allen, rimasugli di una band conosciuta nella West Coast come Billy DeSade & the Marquees, e divenuti nella Big Apple (con l’aggiunta del chitarrista Louis X. Erlanger e del pianista Bobby Leonards) i Mink DeVille. E veniamo così a Willy DeVille, il fu Borsey che decise di entrare nei panni di un personaggio con quel nome preso in prestito da un modello della Cadillac, e ne interpretò la parte in tutto per tutto, non riuscendo più ad uscirne fino ai suoi ultimi giorni. Veniamo dunque ai mitologici giorni in cui i Mink DeVille divennero l’house band del club CBGB (dal 1975 al 1977), più che un semplice locale, una vera culla delle civiltà di tutto il rock newyorkese della seconda metà degli anni settanta (quella dei Ramones, dei Television, dei Blondie, …). Veniamo dunque a Cabretta (o solo Mink Deville nell’edizione USA), uno dei migliori dischi d’esordio della storia del rock secondo molti critici, sicuramente il più inclonabile diciamo noi oggi con il senno di poi. Veniamo ad un disco dove DeVille e i suoi ragazzi, per dirla con una definizione che gli attribuì l’amico Doc Pomus, “riuscirono a condensare la verità e il coraggio delle strade di città in una canzone d’amore del ghetto”, o più semplicemente dove tutte le contraddizioni etniche e sociali di New York vennero riassunte alla perfezione in dieci micidiali stilettate di rock. Quale Rock? Già, veniamo allora al rock di Deville, quello che mischiava il blues di Muddy Waters, il soul dei Drifters o il nuovo punk-rock post-New York Dolls che girava così spesso negli amplificatori del CBGB. Ma anche il rock imbastardito da strani ritmi latini che citava Tito Puente e il jazzista portoricano Ray Barretto. I detrattori annotarono che erano tutti elementi stilistici per nulla rivoluzionari, non certo futuristici come i nuovi suoni della New Wave o dirompenti come il punk inglese. Forse semplicemente non riconobbero la novità di un poema moderno come Spanish Stroll, brano portante che esibiva una struttura lirica molto vicina a Walk On The Wild Side per quella insolita galleria di losers della New York ispanica (Mr Jim, Brother Johny, Sister Sue, Rosita), tutti personaggi che avrebbero meritato la stessa mitizzazione dei vari Holly, Candy e Little Joe di Lou Reed. Ma della New York latina nel mondo del rock nessuno sembrava volersi occupare, quando invece DeVille fu il primo che capì che i “pachucos”, vale a dire i giovani delle gang ispaniche, sarebbero presto usciti dal loro ghetto. L’anno dopo lo seguiranno il Tom Waits di Romeo’s Bleeding e pochi altri, ma laddove Waits continuava a sottolinearne l’ aspetto criminoso, Deville ne cercherà il cuore e ne dissotterrerà l’aspetto romantico. Per raccontare Cabretta potrebbe bastare Spanish Stroll, ma allora quando mai arriveremo a ricordare il vero suono del rock da strada di One Way Street, Gunslinger e soprattutto Cadillac Walk, doveroso omaggio alla macchina che diede il nome alla band scritto da un giovane rockabilly newyorkese (Moon Martin). Oppure ricordare che il cuore che Willy cercò a San Francisco sanguinò per le avenues della grande mela attraverso le note di Party Girls, del doo-wop di Can’t Do Without It o in quelle due perfette new york stories che sono Venus Of Avenue D, storia di una passione sessuale racchiusa in un isolato, e Mixed Up Shook Up Girl, dove l’ideale femminile della prima finisce drogato e irrimediabilmente perso. In Cabretta Deville esprimeva troppe anime, e il pubblico finì per non saper bene come catalogarlo, e la cosa veramente incredibile è che non erano nemmeno tutte. Ci volle Return To Magenta, il secondo album uscito nel 1978, per completare il quadro devilliano con il sound di New Orleans, la dimensione stilistica a lui più consona che si presentò in studio di registrazione sottoforma del pianista Dr John, ospite fisso delle sessions. Sarebbe stata la musica di quella città ad accoglierlo cessata l’avventura con i Mink DeVille, e sarebbe stata poi quella la città da cui Nina, la terza moglie, dovrà farlo fuggire nel 2003 per cercare di salvarlo. Ma intanto le acque fangose del Mississippi in quel secondo disco invadevano le strade di New York attraverso le note di ’A’ Train Lady (brano firmato da David Forman), lo strano up-tempo di Desperate Days, il blues alla Bo Diddley di Steady Drivin' Man e i fiati di Easy Slider. Persino i rudi inni d’asfalto di Soul Twist, Confidence To Kill e Rolene (ancora Moon Martin) parlavano la lingua della Big Easy, ma sempre con l’accento di Manhattan. Il vero valore aggiunto rispetto al primo disco arriverà dalle quelle romanze slow che diverranno il suo marchio di fabbrica più tipico (Guardian Angel, I Broke That Promise e Just Your Friends), spesso impreziosite dagli archi sapientemente dosati dal produttore Jack Nitzsche. Se la parola capolavoro indica anche l’essere il capostipite di una serie di altri lavori ad esso ispirati, Cabretta e Return To Magenta non sono capolavori solo perché nessuno ha mai provato a replicarli, e rimangono ancora oggi unici e irripetibili come il loro autore. Goodbye Willie. (Nicola Gervasini)

martedì 27 ottobre 2009

TOM WAITS in 5 album
























The Heart Of Saturday Night
(Asylum, 1974)


Il cuore del sabato sera era quello che solo i veri “barfly” di Los Angeles sapevano trovare, magari fuori orario al Napoleone Pizza’s House. Il disco simbolo degli ubriaconi notturni nasce come logica prosecuzione del già ottimo esordio Closing Time, ed è l’apice del primissimo Tom Waits, quello con ancora pochi pacchetti di sigarette nella voce e un debito forte verso il cantautorato di marca West Coast. Nasce ufficialmente in queste canzoni il pianista sbronzo, curvo sui tasti e inguaribilmente romantico, con un estetismo e un’epica lirica alla Kerouac e ancora poco del cinismo alla Bukowski che verrà.

Blue Valentine
(Asylum, 1978)


L’apice del Waits anni 70 è una triste “valentina” d’addio inviata a tutti i personaggi impersonati nelle notti fumose, dove subentrano per la prima volta le chitarre elettriche e il blues, e si cominciano a perdere i suoni levigati e jazzy dei comunque imperdibili predecessori (Small Change e Foreign Affairs). La torrenziale abbondanza dei suoi racconti di strada si sposa bene con l’eleganza formale del suo disco più studiato e “prodotto”. La bionda fidanzata Rickie Lee Jones si lascia prendere sul cofano di una vecchia automobile nel retro copertina, non invece il pubblico, che lo rende uno dei suoi dischi meno venduti.


Swordfishtrombones
(Island, 1983)


Insoddisfatto della normalizzazione stilistica vagheggiata da Heartattack And Vine (80) e dalla colonna sonora di One From The Heart, Waits bussa a mille porte prima di trovare nella coraggiosa Island l’etichetta disposta a pubblicare l’album meno anni 80 degli anni 80. Swordfishtrombones tenne a battesimo il nuovo Tom Waits, quello con il look da barbone, i ritmi sbilenchi, le melodie strascicate, le canzoni fatte a brandelli e i testi più ermetici. Qualcuno nota che la rivoluzione deve molto al Captain Beefheart di Trout Mask Replica (1970), ma farla nel 1983 era ben altra impresa.


Rain Dogs
(Island, 1985)


La perfezione è spesso il risultato di un sapiente dosaggio di tanti elementi diversi. In Rain Dogs Waits insiste a destrutturare la musica americana come nel predecessore, stavolta però non facendo torti a nessuno, miscelando blues, jazz, vaudeville, tango, il rock portato in dote dalla chitarra di Keith Richards e persino il country di Blind Love e l’heartland rock di Downbound Train, talmente vicina al mainstream di classe da essere diventata una hit nelle mani di Rod Stewart. Rain Dogs è il capolavoro di una creatività straripante (19 brani) e di una sensibilità melodica fuori dal comune.


Bone Machine
(Island, 1992)


Rain Dogs è stata la summa ma non il punto di arrivo, il viaggio è infatti continuato sempre più elettrizzante con il cabaret di Frank’s Wild Years (87) e ha trovato la sua esplosione finale con Bone Machine. Qui c’è il Waits più strafottente, spavaldamente sperimentatore, forse esagerato e gigione al limite del circense, ma anche un autore ancora in grado di dettare legge e di recuperare persino le tenerezze del suo primo suono. Da qui in poi il livello resterà alto ma inizierà l’era dell’autocitazione, un naturale riciclo del proprio genio e un recupero di consensi unanimi tardivo quanto meritato.

sabato 24 ottobre 2009

BRENDAN BENSON - My Old, Familiar Friend


Buscadero
Ottobre 2009


Sono passati tredici anni dal giorno in cui mi ritrovai a recensire One Mississippi, il primo disco di un allora giovane e sconosciuto brit-popper del Michigan di nome Brendan Benson. Si era nel 1996, il grunge era in decadenza e Blur e Oasis guidavano l’armata inglese della rinascita del rock d’oltremanica, e lui se ne venne fuori con un disco indefinibile che avrebbe dovuto gettare un nuovo ponte tra i due mondi, con voglie di Beatles che s’incrociavano con sonorità molto americane (produceva Ethan Johns quando ancora non si era inventato Ryan Adams). Brutalmente scaricato dalla Virgin per le scarse vendite, di lui si persero praticamente le tracce fino al 2002, anno in cui il secondo album Lapalco lo riportò alla ribalta, stavolta con considerevole successo commerciale e singoli usati nei serial tv (morta la credibilità delle classifiche Billboard, sembra essere stato questo elemento la cartina al tornasole del successo negli anni 2000). La sua storia più nota e recente invece lo ha visto al fianco di Jack White nella bella avventura dei Raconteurs. My Old, Familiar Friend è solo il suo quarto album, e sembra arrivare giusto in tempo per chiudere il decennio facendo un riassunto di dove si è arrivati in termini di pop d’autore. Non potendo più lavorare troppo sul sound (il decennio ne ha decretato la morte, vista la piattezza sonora dei dischi odierni di qualsiasi genere, ma qui l’esperto Gil Norton riesce comunque a fare qualche miracolo come la splendida chitarra di Borrow), almeno si può ancora arrivare ad offrire prove di stile da grandeur pop come il power-pop di Feel A Whole Lot Better che apre le danze tra organetti, batterie pestatissime e chitarre acide. Benson e Norton hanno pasticciato non poco con le tastiere e le voci filtrate, ma il risultato sentito in Eyes On The Horizon da loro ragione in termini di appeal radiofonico, e ancora più divertenti sono gli esercizi di stile come il Motown-sound tutto violini e batterie saltellanti alla Supremes di Garbage Day, l’elettronica vintage di Gonowhere o la quasi techno-dance dell’irresistibile Feel Like Taking You Home. Dopo lo scoppiettante inizio il disco perde un po’ di verve e effetto sorpresa, dando sempre la sensazione che Benson stia sempre un po’ giocando a vedere chi indovina la citazione, invece che dimostrare una propria effettiva crescita d’artista, e alcuni conti non tornano (Poised And Ready). Ma tra pastiche orchestrali (You Make A Fool Out Of Me), power-pop alla Badfinger (Don’t Wanna Talk) e voglia di essere il McCartney del nuovo millenio (Misery) il disco ci porta alla fine con sufficiente godimento per una nuova promozione.
(Nicola Gervasini)

mercoledì 21 ottobre 2009

TOWNES VAN ZANDT TRIBUTE




Il commento più bello è stato quello della star della serata Eric Taylor, quando, visibilmente emozionato (dopo a aver proposto la sua Mickey Finn e chiuso le danze con Nothin'), ha detto che per Townes Van Zandt sapere che si passi la serata a suonare le sue canzoni nella periferia del mondo, sarebbe stato il regalo più bello della sua sfortunata carriera. D'altronde Van Zandt è stato un artista che ha fatto fatica a farsi conoscere a casa sua in Texas, figuriamoci dunque quale assurda sfida contro i mulini a vento possa essere stato farne un tributo nel cuore della Brianza (e siamo arrivati ormai alla quinta edizione). Ma Andrea Parodi e Massimiliano Larocca (cantautori, ma anche titolari della Pomodori Music che ha organizzato l'evento) hanno dimostrato, ancor più che nelle passate edizioni, che l'idea di affiancare artisti stranieri con una sempre più nutrita schiera di folk singer nostrani sta pagando parecchio. Perché se è vero che le differenze tra chi è un professionista e chi è solo un cultore della materia si sono comunque viste, è pur vero che l'atmosfera che si è creata tra i musicisti e anche tra il pubblico (numeroso) ha dato la sensazione che intorno alle organizzazioni della Pomodori Music si stia creando una scena italiana di riscoperta del folk e della musica americana che fa ben sperare, vista anche la giovane età di alcuni artisti presenti (citazione "di casa" per il nostro collaboratore Gabriele Gatto, ma anche l'emozionata Ilaria Pastore, entrambi spavaldi nell'azzannare due testi difficili come If I Needed You e No Place To Fall).Abbiamo avuto insomma la bella sensazione dell'esistenza di una fitta ragnatela di appassionati e cultori del songwriting americano che copre tutta Italia, uno sprono a continuare la lotta anche per chi, come noi, cerca di tracciare un percorso logico e critico di una cultura che davvero non è mai riuscita ad attecchire pienamente nelle nostre lande desolate. Per cui Townes Van Zandt e le sue immortali canzoni figuravano essere un pretesto di lusso per fare un'unica jam internazionale, uno spettacolo umano, prima ancora che artistico, che non ci stancheremo mai di consigliare a tutti. Fosse anche solo per ricordarci che, prima ancora delle parole che amiamo spendere sull'argomento musica, esiste la musica stessa, nata per esprimere umori, dolori, amicizie e creare un'esperienza comunitaria rara e irrinunciabile come quella di questo tributo. Impossibile commentare tutte le esibizioni, bene o male tutti se la sono cavata ottimamente, anche grazie a bellissime jam sessions improvvisate nel backstage, e portate sul palco con sentimento e grande perizia. Coraggiose le riletture in italiano offerte dagli stessi Parodi e Larocca, da un bravo Renzo Cozzani e da un sorprendente Lele Complici, quasi eroico nel tentare di trasportare l'anima dark-blues di Waiting Around To Die nelle nebbie comasche. Applauditissima la schiera di artisti svedesi (i Tarantula Waltz, Hagga, Gustav Haggren, Mother James), scroscio di consensi per i fratelli Jack e Harry Harris dal Galles (voci da brividi), conferme dall'australiano Pete Ross, gli americani Mudcat ed Elisabeth Cutler, e ovviamente applausi meritati per tutti gli artisti di casa nostra, tra riletture stravolte (la divertente verisione mariachi di Brother Flowers offerta dai Little Angel & The Bonecrashers o la Loretta di Davide Buffoli), ripescaggi di brani minori del Townes degli esordi (il modenese Davide Ravera rilegge "alla Bo Diddley" Blackjack Mama) e rispettosi e degni tributi al genio di Townes di artisti da scoprire (Cesare Carugi, Paolo Pieretto e altri). Tutte buone invece le conferme dei nomi già più o meno rodati come Fabrizio Poggi, Luigi Grechi, JC Cinel, Riccardo Maffoni (davvero toccante la sua Flying Shoes), Daniele Tenca, e i toscani Del Sangre. Le citazioni sono comunque superflue, lo spirito della serata è stato colto perfettamente da tutti e questo era l'importante. La scenografia vedeva scorrere su un telo le immagini del bellissimo documentario dedicato a Van Zandt (Be Here To Love Me di Margaret Brown del 2004), e tra gli artisti che gli rendevano omaggio c'era ovviamente Steve Earle, uno che avrebbe avuto bisogno di passare una serata come questa prima di registrare il suo tributo a Van Zandt: tra questi artisti ieri sera serpeggiava proprio quell'anima che è mancata al suo deludente Townes di quest'anno. (Nicola Gervasini)


La scaletta della serata



ERIC TAYLOR - Mickey Finn TARANTULA WALTZ - Rake ANDREA PARODI - Tecumseh Valley PAOLO PIERETTO - Be Here To Love Me JACK HARRIS - Colorado Girls ELISABETH CUTLER - I'll Be There In The Morning HAGGA - Two Hands LUIGI GRECHI - Pancho & Lefty GABRIELE GATTO - If I Needed You HARRY HARRIS - For The Sake Of The Song CESARE CARUGI - None But The Rain JOHN ELI PASKOFF - Come Tomorrow RENZO COZZANI - A Song For ANDREA FRANCESCHINI - St.John The Gambler GUSTAF HAGGREN - Tower Song ILARIA PASTORE - No Place To Fall LUCA DAI - Heavently Housboat Blues RICCARDO MAFFONI - Flyin' Shoes MUDCAT - Tunstyled, Junkpiled LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS - Brother Flowers DAVIDE BUFFOLI - Loretta FABRIZIO POGGI - Delta Momma Blues LELE COMPLICI - Waiting Around To Die DEL SANGRE - Only Him Or Me DAVIDE RAVERA - Blackjack Mama PETE ROSS - Where I Lead Me JC CINEL - Ain't Livin'Your Love MANUELE ZAMBONI - White Freightliner LUCA MILANI - Sad Cinderella STEFANO BAROTTI - Dollar Bill Blues MOTHER JAMES - To Live Is To Fly DANIELE TENCA - Snake Song MASSIMILIANO LAROCCA - Rex's Blues ERIC TAYLOR - Nothin' Gran finale: Dead Flowers

venerdì 16 ottobre 2009

THE SCOTLAND YARD GOSPEL CHOIR - ...And The Horse You Rode In On


Non sono inglesi, né tantomeno sono un coro gospel, e se è vero che la prima regola del marketing rock dice che il nome giusto garantisce già una buona parte di successo, gli Scotland Yard Gospel Choir vincono il primo premio per scelleratezza mediatica. Arrendiamoci quindi all’idea che le nostre vecchie coordinate musical-geografiche non siano altro che spazzatura oggigiorno, e accogliamo dunque questo collettivo di musicisti che da Chicago ha realizzato uno dei dischi di rock britannico più frizzanti e divertenti dell’annata. ...And The Horse You Rode In On è il loro terzo disco (per la cronaca “Fuck you! and the horse you rode in on” è una frase idiomatica del mondo anglosassone per mandare a quel paese qualcuno e tutto ciò che lo riguarda, giusto per togliervi il dubbio su quale sia la parte mancante della frase), quattordici brani brevi e incisivi che si pongono tra echi di Smiths e Housemartins e i più recenti Bright Eyes modello Cassadaga, e la parentela con quest’ultimi non è solo stilistica. Il disco infatti rappresenta una sorta di happening della scena indie di Chicago (e c’è anche una comparsata di Jon Langford dei Waco Brothers), dove al cantante/organista/chitarrista Elia Einhorn e alla seconda chitarra di Mary Ralph si uniscono una lunga serie di musicisti della città. Ma la forza qui la fanno le canzoni, e soprattutto una micidiale partenza che da Stop! (puro indie-folk con echi di Avett Brothers) passa per One Night Stand (Jhonny Marr non è nei credits, ma è presente con lo spirito) e Something’s Happening (ve li ricordate i Dexy’s Midnight Runners? Loro sicuramente sì). Molto interessante anche la parte centrale, quando il microfono passa nelle mani di Mary Ralph per l’intensa Sixteen Is Too Young, episodio quasi folk, come anche la splendida Praying Is A Heartache, melodia celestiale sorretta da un arpeggio acustico. I due brani rappresentano uno strano intermezzo tra una trafila di pop-song di pronto uso (I’ll Pretend She’s You, Hope Is Still On Your Side) e il ritorno al microfono di Elia per la superba Save Your Breath, quasi un numero da giovane Lou Reed. Nel finale si ritorna su arie britanniche con Castles Of Wales (Einhorn è di origini gallesi) e una serie di micidiali two-minute songs, tra cui la trascinante title-track. Nulla di nuovo si dirà, semplicemente qualcosa di fresco e difficilmente definibile. E probabilmente non riuscire ad ingabbiarli in un genere è il miglior complimento che si possa fare ai Scotland Yard Gospel Choir, gruppo di ragazzi che sembrano dei residuati degli anni 80 pur riuscendo a sembrare quanto mai attuali. (Nicola Gervasini)

martedì 13 ottobre 2009

CHUCK PROPHET - ¡Let the Freedom Ring!


18/09/2009
Rootshighway




Lo avete aspettato tanto ed eccolo finalmente: ¡Let Freedom Ring! è il disco che un po' tutti chiedevano da tempo a Chuck Prophet, diremmo quasi l'atteso seguito dell'ottimo Homemade Blood del 1996. E' tornato a casa dunque l'ex Green On Red, dopo un lungo viaggio in una sperimentazione e modernizzazione della sua musica che ha prodotto dischi difficili e controversi. E lo ha fatto nel migliore dei modi: si è scelto un produttore di sicura esperienza nel mondo roots (Greg Leisz), musicisti fidati (gli Springsteen-fans noteranno la presenza di Ernst "Boom" Carter, alla batteria, uno che ha come prima riga del lungo curriculum "è stato il batterista di Born To Run"), si è fatto un bel giro a Città del Messico e se ne è uscito col disco giusto. Rock di vecchio stampo, con il santino di Keith Richards di nuovo sul comodino come i vecchi tempi, e nel frattempo il grande vantaggio di aver imparato anche a cantare, tanto che per la prima volta in un suo disco capita che l'interpretazione possa essere migliore della canzone (Hot Talk). Ma gli album precedenti non sono passati invano, Prophet è ormai artista maturo e vanta anche un songwriting per nulla banale, e già il precedente Soap & Water aveva evidenziato quanto l'artista fosse migliore dell'opera d'arte. E la sensazione è che quanto presente in questo suo nono sforzo solista non sia ancora il suo zenith. Quello che è certo è che Prophet aveva bisogno di un disco secco e diretto come questo, con brani come Sonny Liston's Blues, Where The Hell Is Henry o la stessa Let Freedom Ring che tornano a rinverdire una tradizione di rauco rock stradaiolo alla quale siamo ovviamente legati con il sangue. Aveva anche bisogno di ritrovare una scrittura semplice ma incisiva come quella delle bellissime ballate qui presenti (What Can A Mother Do, Barely Exist o Love Won't Keep Us Apart), che quasi riportano alla memoria i momenti migliori dell'indimenticato Balinese Dancer, o riaffilare la propria ferocia critica in American Man, un brano che potrebbe appartenere allo Ian Hunter degli ultimi tempi. Oppure semplicemente aveva necessità di giocare un po' con gli stili e non più solo con le batterie elettroniche, sparando una Good Time Crowd che usa riff e cori da rockabilly anni 50, ma appare paradossalmente come uno degli episodi più moderni. Presentando il disco sul suo sito, Prophet ha scherzosamente scritto che questo è il disco di "Chuck Prophet 3.0.", usando una numerazione tipica delle versioni dei software, ad intendere che da qui in poi si apre la sua terza era artistica. Noi siamo felici che certi bachi del passato siano stati corretti, ora il programma gira a meraviglia infatti, ma per la versione 3.1. avremmo alcune richieste di nuove funzionalità che lo portino a realizzare un disco che ne faccia finalmente riconoscere lo status di artista di primissimo livello anche al di fuori della cerchia di nostalgici del roots-rock. Manca davvero poco in fondo. (Nicola Gervasini)

venerdì 9 ottobre 2009

KIERAN KANE - Somewhere Beyond The Roses


28/09/2009
Rootshighway


iamo ormai talmente abituati a parlare di Kieran Kane come di uno degli outsider storici della roots-music americana che finiamo spesso per dimenticarci che questo vecchio hobo (quest'anno sono 60 anni, anche se non li dimostra…) negli anni '80 è stato una gallina dalle uova d'oro della scena di Nashville. Gli O'Kanes, duo tenuto in vita con Jamie O'Hara, piazzò ai tempi ben sette singoli nelle charts di Billboard, e persino il suo omonimo esordio da solista del 1982 vendette bene e finì in classifica. Numeri che fanno un po' a pugni con la sua storia a noi più nota, quella nata nel 1995 con un bel disco che diede un calcio al country più poppettaro del suo passato e il nome ad un'etichetta (la Dead Reckoning, fondata con l'amico Kevin Welch) che da allora è sinonimo di produzioni indipendenti e di qualità, quanto inesorabilmente al margine, per non dire di serie B. Con Somewhere Beyond The Roses Kane torna unico titolare delle sue produzioni, avendo perso per strada proprio l'amico Welch e il chitarrista tuttofare Fats Kaplin (a nome del trio erano usciti i due ultimi dischi), che qui torna a fare il gregario di lusso intervenendo solo in Unfaithful Heart.

Dieci brani scritti da Kane (con frequenti temi di sofferta religiosità), con le occasionali collaborazioni di un altro compagno di tante avventure come David Olney (che piazza il suo vocione nell'ottima Don't Try To Fight It e la penna in I Took My Power Back) e il poco conosciuto cantautore canadese David Francey, più nel finale una cover di Tell Me Mama, un vecchio blues di Little Walter. Una rilettura quest'ultima che indica subito l'indirizzo pesantemente bluesy del disco, registrato da Kane in presa diretta in soli due giorni di sessions con l'ausilio del figlio Lucas alle percussioni e con il fantastico sax "alla Bobby Keys" di Deanna Varagona (già sentita da sola e con i Lambchop) e soprattutto del veterano della sei corde Richard Bennett (spesso al seguito di Neil Diamond). Il risultato sono 34 minuti di country-blues tesi e secchi, a partire dal superbo inizio di Way Down Below, il chicago-blues acustico di Why Can't You e il ritorno alle atmosfere cantautoriali a lui più consone nella title-track.

Il pregio del disco è sicuramente quello di avere bellissime sonorità da band da strada sfruttando al meglio, quasi "alla Tom Waits", il toni tetri e fangosi del sax della Varagona e del banjo di Kane, veri protagonisti dell'album. Eppure questo diventa però alla lunga anche il limite maggiore, perché comunque ritmo e atmosfera restano pressoché invariati fino alla fine. I blues sbilenchi e gutturali di Marriage Of Convenience, Anybody's Game e More To It Than This restano tra le cose migliori registrate da Kane, che se non altro ha dimostrato di avere ancora il coraggio di un ragazzino pubblicando un disco che passerà probabilmente inosservato, ma che ha ancora tanta classe e sostanza da insegnare a tutti.
(Nicola Gervasini)

lunedì 5 ottobre 2009

DRIVE BY TRUCKERS - The Fine Print


04/09/2009
Rootshighway



Facciamola breve: la risposta a tutte le vostre domande è sì, vale la pena comprarsi anche questo titolo dei Drive By Truckers, nonostante si tratti della canonica raccolta di scarti/outtakes/alternate versions. E ancora sì, The Fine Print non diventerà certo il loro titolo più rappresentativo o l'album da consigliare ai neofiti, ma è comunque un disco che sta in piedi da solo, che trova una insperata unitarietà di intenti e di stili (grazie al fatto che si riferisce ad un periodo della loro vita artistica ben preciso e connotabile), e non appare come quel raffazzonato guazzabuglio di frammenti che si poteva temere leggendo il sottotitolo. Sì, avete forse ragione a storcere il naso pensando che questo album, così come il Live From Austin Tx uscito praticamente in contemporanea, è stato concepito anche per sfruttare il momento favorevole conseguente all'ottimo successo di critica di Brighter Than Creation's Dark (Patterson Hood lo considera il loro capolavoro, pur sottolineando come il loro titolo più venduto sia però ancora oggi Dirth South dell'ormai lontano 2004), ma tutto sommato ben vengano anche una meritata pausa di riflessione (il nuovo album sarà comunque pronto per la primavera del 2010) e i primi prodotti autocelebrativi di una band che ha probabilmente appena scritto le sue pagine migliori.

E poi ancora sì, il disco soddisfa la vostra voglia di ricercare chicche da collezionisti, come la cover di Like A Rolling Stone (probabilmente esiste una legge in USA che obbliga qualsiasi artista a rilasciare prima o poi la propria versione di un brano di Dylan anche quando non necessario), ma soprattutto quella tesa e riuscitissima di Rebels, un grande brano del Tom Petty minore di metà anni 80, o quella doverosa di Play It All Night Long di un Warren Zevon che citava i Lynyrd Skynyrd molto prima che lo facessero loro nella Southern Rock Opera. E sempre in tema di cover, non dimentichiamoci di menzionare anche la divertente Mama Bake A Pie di Tom T.Hall. Sì, tranquilli, ci sono anche le ultime canzoni firmate da Jason Isbell prima di uscire dal gruppo, e se TVA è discreta (ma di ballate così Isbell ne ha scritte di ben altro spessore), When The Well Runs Dry è uno di quei brani che sarebbe davvero spiaciuto perdersi (nonostante la forte somiglianza con Tweeter & The Monkey Man di Dylan).

E ancora sì, le versioni alternative di brani già noti sono comunque interessanti (la grintosa Uncle Frank su tutte), e i tra i brani sconosciuti, la bluesata (e di alto contenuto erotico) Mrs Claus Kimono e il devastante inizio di Georgie Jones Talkin' Cell Phone Blues potrebbero anche far parte di un loro ideale "The Best". E infine sì, anche nel caso di un disco necessariamente minore come questo possiamo ribadire che i Drive By Truckers sono stati uno dei nomi fondamentali di questi anni 2000. Come dite? Chiedete se lo potranno essere anche nei 2010? Eh no, adesso chiedete troppo, e la risposta sarebbe troppo lunga…
(Nicola Gervasini)

venerdì 2 ottobre 2009

CROSS CANADIAN RAGWEED - Happiness & All The Other Things


23/09/2009

Rootshighway


Il voto 5,5 è severo, sappiatelo subito, e probabilmente non direttamente relazionabile con alcune sufficienze risicate che passano su questo sito. Happiness & All The Other Things, settimo album in studio dei Cross Canadian Ragweed, è come al solito un piacevole viaggio sulle strade dell'American Red Dirt Music, termine spesso usato (anche in tono dispregiativo) da molti recensori americani per indicare la musica degli Okie (vale a dire i rozzi abitanti dell'Oklahoma) e del Texas. Rock stradaioli (51 Pieces invoglia a cercare una highway con orizzonte annesso fin dal primo minuto), delicate ballate per dobro dedicate ai propri figli (Blue Bonnets), ariosi mid-tempo di frontiera (Burn Like The Sun): arrivati alla terza traccia il campionario del buon red-dirt rocker è già completo. Per cui non badate alle paturnie del recensore, se state caricando la vostra Harley Davidson anche solo per fare un giro sull'Autostrada del Sole, Happiness & All The Other Things potrebbe essere un valido compagno di viaggio. Ma quello che ci disturba è dover constatare come i Cross Canadian Ragweed non siano affatto cresciuti in tutti questi anni, che la vita on the road li ha semmai ripuliti (la produzione di Mike McClure qui si danna a togliere polvere da ogni singola corda di chitarra, con il risultato che in To Find My Love si arriva a sfiorare l'AOR sound), ingentiliti (in tutto il disco, a partire dal titolo, si respira la classica aria da trentenni arrivati e realizzati che fa sempre molto poco rock and roll…), in poche parole semplicemente appagati. Invece, al di là dell'infelice nome da cover-band dei Creedence Clearwater Revival che si scelsero nell'ormai lontano 1994 (che per la cronaca deriva dai cognomi dei 4 membri, Grady Cross, Cody Canada, Randy Ragsdale e ai tempi Matt Wiedemann, poi sostituito da Jeremy Pilato), i CCR sarebbero potuti diventare qualcosa di più grande, di più esportabile, perché senza dover per forza fare grosse svolte alla Wilco, gruppi come i Drive By Truckers prima e i Felice Brothers ultimamente stanno dimostrando che la roots-music americana possa uscire dal ghetto in cui sembra essersi infilata in questi anni 2000, e portare queste chitarre, dobro e mandolini nei lettori di cd degli ascoltatori dei Mars Volta o degli Animal Collective senza troppo disturbare. Invece Happiness & All The Other Things è fieramente e cocciutamente un disco di genere, pure con parecchi passaggi a vuoto d'ispirazione (Kick In The Head) e qualche momento più interessante (Pretty Lady) o semplicemente solo piacevole (Tomorrow e My Chances, che sfrutta uno dei frequenti interventi vocali di Stephanie Briggs, giovane e valida cantautrice ormai diventata membro aggiunto alle tastiere). Il cd offre anche una ghost track (una versione di Carmelita di Warren Zevon pigra e con poco pathos) e tre bonus tracks dal vivo, tra cui una cover di Angel Flying Too Close To The Ground di Willie Nelson e di Train To Birmingham di Kevin Welch. Tutto molto bello, ma se offrissero anche una scintilla artistica in più non sarebbe male. (Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...