martedì 27 ottobre 2009

TOM WAITS in 5 album
























The Heart Of Saturday Night
(Asylum, 1974)


Il cuore del sabato sera era quello che solo i veri “barfly” di Los Angeles sapevano trovare, magari fuori orario al Napoleone Pizza’s House. Il disco simbolo degli ubriaconi notturni nasce come logica prosecuzione del già ottimo esordio Closing Time, ed è l’apice del primissimo Tom Waits, quello con ancora pochi pacchetti di sigarette nella voce e un debito forte verso il cantautorato di marca West Coast. Nasce ufficialmente in queste canzoni il pianista sbronzo, curvo sui tasti e inguaribilmente romantico, con un estetismo e un’epica lirica alla Kerouac e ancora poco del cinismo alla Bukowski che verrà.

Blue Valentine
(Asylum, 1978)


L’apice del Waits anni 70 è una triste “valentina” d’addio inviata a tutti i personaggi impersonati nelle notti fumose, dove subentrano per la prima volta le chitarre elettriche e il blues, e si cominciano a perdere i suoni levigati e jazzy dei comunque imperdibili predecessori (Small Change e Foreign Affairs). La torrenziale abbondanza dei suoi racconti di strada si sposa bene con l’eleganza formale del suo disco più studiato e “prodotto”. La bionda fidanzata Rickie Lee Jones si lascia prendere sul cofano di una vecchia automobile nel retro copertina, non invece il pubblico, che lo rende uno dei suoi dischi meno venduti.


Swordfishtrombones
(Island, 1983)


Insoddisfatto della normalizzazione stilistica vagheggiata da Heartattack And Vine (80) e dalla colonna sonora di One From The Heart, Waits bussa a mille porte prima di trovare nella coraggiosa Island l’etichetta disposta a pubblicare l’album meno anni 80 degli anni 80. Swordfishtrombones tenne a battesimo il nuovo Tom Waits, quello con il look da barbone, i ritmi sbilenchi, le melodie strascicate, le canzoni fatte a brandelli e i testi più ermetici. Qualcuno nota che la rivoluzione deve molto al Captain Beefheart di Trout Mask Replica (1970), ma farla nel 1983 era ben altra impresa.


Rain Dogs
(Island, 1985)


La perfezione è spesso il risultato di un sapiente dosaggio di tanti elementi diversi. In Rain Dogs Waits insiste a destrutturare la musica americana come nel predecessore, stavolta però non facendo torti a nessuno, miscelando blues, jazz, vaudeville, tango, il rock portato in dote dalla chitarra di Keith Richards e persino il country di Blind Love e l’heartland rock di Downbound Train, talmente vicina al mainstream di classe da essere diventata una hit nelle mani di Rod Stewart. Rain Dogs è il capolavoro di una creatività straripante (19 brani) e di una sensibilità melodica fuori dal comune.


Bone Machine
(Island, 1992)


Rain Dogs è stata la summa ma non il punto di arrivo, il viaggio è infatti continuato sempre più elettrizzante con il cabaret di Frank’s Wild Years (87) e ha trovato la sua esplosione finale con Bone Machine. Qui c’è il Waits più strafottente, spavaldamente sperimentatore, forse esagerato e gigione al limite del circense, ma anche un autore ancora in grado di dettare legge e di recuperare persino le tenerezze del suo primo suono. Da qui in poi il livello resterà alto ma inizierà l’era dell’autocitazione, un naturale riciclo del proprio genio e un recupero di consensi unanimi tardivo quanto meritato.

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