domenica 1 novembre 2009

WILLY DEVILLE - Cabretta (1977) e Return To Magenta (1978)


La leggenda narra che William Borsey, un giovane scapigliato del Connecticut, un giorno abbia deciso di fare un viaggio a San Francisco con l’intento di trovare musicisti che “avessero un cuore e non solo un ego da soddisfare con assoli di venti minuti”. Quando se ne tornò a New York, sul suo pulmino c’erano il bassista Rubén Sigüenza, e il batterista Tom "Manfred" Allen, rimasugli di una band conosciuta nella West Coast come Billy DeSade & the Marquees, e divenuti nella Big Apple (con l’aggiunta del chitarrista Louis X. Erlanger e del pianista Bobby Leonards) i Mink DeVille. E veniamo così a Willy DeVille, il fu Borsey che decise di entrare nei panni di un personaggio con quel nome preso in prestito da un modello della Cadillac, e ne interpretò la parte in tutto per tutto, non riuscendo più ad uscirne fino ai suoi ultimi giorni. Veniamo dunque ai mitologici giorni in cui i Mink DeVille divennero l’house band del club CBGB (dal 1975 al 1977), più che un semplice locale, una vera culla delle civiltà di tutto il rock newyorkese della seconda metà degli anni settanta (quella dei Ramones, dei Television, dei Blondie, …). Veniamo dunque a Cabretta (o solo Mink Deville nell’edizione USA), uno dei migliori dischi d’esordio della storia del rock secondo molti critici, sicuramente il più inclonabile diciamo noi oggi con il senno di poi. Veniamo ad un disco dove DeVille e i suoi ragazzi, per dirla con una definizione che gli attribuì l’amico Doc Pomus, “riuscirono a condensare la verità e il coraggio delle strade di città in una canzone d’amore del ghetto”, o più semplicemente dove tutte le contraddizioni etniche e sociali di New York vennero riassunte alla perfezione in dieci micidiali stilettate di rock. Quale Rock? Già, veniamo allora al rock di Deville, quello che mischiava il blues di Muddy Waters, il soul dei Drifters o il nuovo punk-rock post-New York Dolls che girava così spesso negli amplificatori del CBGB. Ma anche il rock imbastardito da strani ritmi latini che citava Tito Puente e il jazzista portoricano Ray Barretto. I detrattori annotarono che erano tutti elementi stilistici per nulla rivoluzionari, non certo futuristici come i nuovi suoni della New Wave o dirompenti come il punk inglese. Forse semplicemente non riconobbero la novità di un poema moderno come Spanish Stroll, brano portante che esibiva una struttura lirica molto vicina a Walk On The Wild Side per quella insolita galleria di losers della New York ispanica (Mr Jim, Brother Johny, Sister Sue, Rosita), tutti personaggi che avrebbero meritato la stessa mitizzazione dei vari Holly, Candy e Little Joe di Lou Reed. Ma della New York latina nel mondo del rock nessuno sembrava volersi occupare, quando invece DeVille fu il primo che capì che i “pachucos”, vale a dire i giovani delle gang ispaniche, sarebbero presto usciti dal loro ghetto. L’anno dopo lo seguiranno il Tom Waits di Romeo’s Bleeding e pochi altri, ma laddove Waits continuava a sottolinearne l’ aspetto criminoso, Deville ne cercherà il cuore e ne dissotterrerà l’aspetto romantico. Per raccontare Cabretta potrebbe bastare Spanish Stroll, ma allora quando mai arriveremo a ricordare il vero suono del rock da strada di One Way Street, Gunslinger e soprattutto Cadillac Walk, doveroso omaggio alla macchina che diede il nome alla band scritto da un giovane rockabilly newyorkese (Moon Martin). Oppure ricordare che il cuore che Willy cercò a San Francisco sanguinò per le avenues della grande mela attraverso le note di Party Girls, del doo-wop di Can’t Do Without It o in quelle due perfette new york stories che sono Venus Of Avenue D, storia di una passione sessuale racchiusa in un isolato, e Mixed Up Shook Up Girl, dove l’ideale femminile della prima finisce drogato e irrimediabilmente perso. In Cabretta Deville esprimeva troppe anime, e il pubblico finì per non saper bene come catalogarlo, e la cosa veramente incredibile è che non erano nemmeno tutte. Ci volle Return To Magenta, il secondo album uscito nel 1978, per completare il quadro devilliano con il sound di New Orleans, la dimensione stilistica a lui più consona che si presentò in studio di registrazione sottoforma del pianista Dr John, ospite fisso delle sessions. Sarebbe stata la musica di quella città ad accoglierlo cessata l’avventura con i Mink DeVille, e sarebbe stata poi quella la città da cui Nina, la terza moglie, dovrà farlo fuggire nel 2003 per cercare di salvarlo. Ma intanto le acque fangose del Mississippi in quel secondo disco invadevano le strade di New York attraverso le note di ’A’ Train Lady (brano firmato da David Forman), lo strano up-tempo di Desperate Days, il blues alla Bo Diddley di Steady Drivin' Man e i fiati di Easy Slider. Persino i rudi inni d’asfalto di Soul Twist, Confidence To Kill e Rolene (ancora Moon Martin) parlavano la lingua della Big Easy, ma sempre con l’accento di Manhattan. Il vero valore aggiunto rispetto al primo disco arriverà dalle quelle romanze slow che diverranno il suo marchio di fabbrica più tipico (Guardian Angel, I Broke That Promise e Just Your Friends), spesso impreziosite dagli archi sapientemente dosati dal produttore Jack Nitzsche. Se la parola capolavoro indica anche l’essere il capostipite di una serie di altri lavori ad esso ispirati, Cabretta e Return To Magenta non sono capolavori solo perché nessuno ha mai provato a replicarli, e rimangono ancora oggi unici e irripetibili come il loro autore. Goodbye Willie. (Nicola Gervasini)

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