Emma
Swift
The
Resurrection Game
(2025, Tiny
Ghost Records)
File Under:
Sophisticated Lady
Il rock non è più materiale da
bruciare solo in anni giovanili, e così non pare troppo strano che
l’australiana Emma Swift pubblichi il suo vero album d’esordio a 44
anni. Intendiamoci, The Resurrection Game non è la sua primissima pubblicazione,
perché dopo anni passati in terra natia come speaker radiofonica, già nel 2014 Emma
si era recata a Nashville per registrare un Ep omonimo di 6 brani, e nel 2020 aveva
dato alle stampe un cover-record interamente dedicato a Bob Dylan (tappa
obbligata per molti, ma solitamente a carriera avanzata), genialmente intitolato
Blonde On The Tracks. Ma questo è il primo vero album di materiale autografo,
e c’era una certa curiosità nel cercare di immaginarsi quale stile avrebbe abbracciato.
E anche qui tutto sommato la particolarità
è che il disco pare davvero uno di quei momenti di riflessione e introspezione personale
che di solito capitano agli artisti dopo un lungo percorso artistico, quasi che
Emma stia ripercorrendo le più comuni fasi creative al contrario, partendo
dall’album in cui racconta la fatica di ritrovarsi, senza averci mai cantato
prima di quando si era persa. Si tratta davvero di una raccolta di canzoni che parlano
di resurrezione, dalla depressione e da una mancanza di fiducia in sé stessa.
Il compagno Robyn Htchcock è stato giustamente tenuto fuori da questo percorso così
personale, anche perché lo stile da sontuoso chamber-folk di questi brani non è
certo nelle sue corde, ma va notato che il merchandising collegato all’album e
al tour mantiene il loro gattone grigio Ringo come icona e testimonial, lo
stesso felino che già abbiamo visto nelle recenti copertine dei dischi di
Robyn.
Registrato con un quartetto di musicisti
che offre una base asciutta e priva di qualsiasi virtuosismo (Juan Solorzano alla
chitarra, Spencer Cullum alla pedal steel e Dominic Billet alle percussioni), The
Resurrection Game poggia tutto il suo impianto sonoro sulle orchestrazioni
pensate dal tastierista e produttore Jordan Lehning, figlio d’arte (suo
padre Kyle Lehning è un vecchio produttore e session man della scena country di
Nashville, lo trovate nei dischi migliori di Waylon Jennings degli anni
Settanta ad esempio) che ha condiviso con Emma la passione per l’arte dell’arrangiamento
d’archi in puro stile Lee Hazlewood o Harry Nilsson, anche se lo spleen oscuro
che permea queste canzoni potrebbe anche far tirare in ballo Scott Walker.
Ne esce un album affascinante e ben
scritto, con brani davvero notevoli come Nothing and Forever, No Happy Endings
e How To be Small, ma forse ancora troppo monolitico nel proprio
concept produttivo, e paradossalmente aveva dimostrato più versatilità alle prese
con il mondo di Dylan, che con il suo personale. Ma se amate i dischi di Angel
Olsen, per dire un nome in qualche modo assimilabile, o ancor più avete amato l’album
Ramona di Grace Cummings lo scorso anno, potrete trovare in questo mondo
sofferto e sognante il vostro terreno naturale. Resta la sensazione che possa
sviluppare ancora meglio certe idee e intuizioni da autrice per nulla alle prime
armi, per cui per ora diamole la fiducia che comunque merita.
Nicola Gervasini
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