lunedì 17 novembre 2025

Emma Swift

 

Emma Swift

The Resurrection Game

(2025, Tiny Ghost Records)

File Under: Sophisticated Lady

Il rock non è più materiale da bruciare solo in anni giovanili, e così non pare troppo strano che l’australiana Emma Swift pubblichi il suo vero album d’esordio a 44 anni. Intendiamoci, The Resurrection Game non è la sua primissima pubblicazione, perché dopo anni passati in terra natia come speaker radiofonica, già nel 2014 Emma si era recata a Nashville per registrare un Ep omonimo di 6 brani, e nel 2020 aveva dato alle stampe un cover-record interamente dedicato a Bob Dylan (tappa obbligata per molti, ma solitamente a carriera avanzata), genialmente intitolato Blonde On The Tracks. Ma questo è il primo vero album di materiale autografo, e c’era una certa curiosità nel cercare di immaginarsi quale stile avrebbe abbracciato.

E anche qui tutto sommato la particolarità è che il disco pare davvero uno di quei momenti di riflessione e introspezione personale che di solito capitano agli artisti dopo un lungo percorso artistico, quasi che Emma stia ripercorrendo le più comuni fasi creative al contrario, partendo dall’album in cui racconta la fatica di ritrovarsi, senza averci mai cantato prima di quando si era persa. Si tratta davvero di una raccolta di canzoni che parlano di resurrezione, dalla depressione e da una mancanza di fiducia in sé stessa. Il compagno Robyn Htchcock è stato giustamente tenuto fuori da questo percorso così personale, anche perché lo stile da sontuoso chamber-folk di questi brani non è certo nelle sue corde, ma va notato che il merchandising collegato all’album e al tour mantiene il loro gattone grigio Ringo come icona e testimonial, lo stesso felino che già abbiamo visto nelle recenti copertine dei dischi di Robyn.

Registrato con un quartetto di musicisti che offre una base asciutta e priva di qualsiasi virtuosismo (Juan Solorzano alla chitarra, Spencer Cullum alla pedal steel e Dominic Billet alle percussioni), The Resurrection Game poggia tutto il suo impianto sonoro sulle orchestrazioni pensate dal tastierista e produttore Jordan Lehning, figlio d’arte (suo padre Kyle Lehning è un vecchio produttore e session man della scena country di Nashville, lo trovate nei dischi migliori di Waylon Jennings degli anni Settanta ad esempio) che ha condiviso con Emma la passione per l’arte dell’arrangiamento d’archi in puro stile Lee Hazlewood o Harry Nilsson, anche se lo spleen oscuro che permea queste canzoni potrebbe anche far tirare in ballo Scott Walker.

Ne esce un album affascinante e ben scritto, con brani davvero notevoli come Nothing and Forever, No Happy Endings e How To be Small, ma forse ancora troppo monolitico nel proprio concept produttivo, e paradossalmente aveva dimostrato più versatilità alle prese con il mondo di Dylan, che con il suo personale. Ma se amate i dischi di Angel Olsen, per dire un nome in qualche modo assimilabile, o ancor più avete amato l’album Ramona di Grace Cummings lo scorso anno, potrete trovare in questo mondo sofferto e sognante il vostro terreno naturale. Resta la sensazione che possa sviluppare ancora meglio certe idee e intuizioni da autrice per nulla alle prime armi, per cui per ora diamole la fiducia che comunque merita.

 

Nicola Gervasini

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