Joan Shelley
Real Warmth
(2025, No Quarter)
File Under: “holding my dear friends and drinking wine”
Se c’è un aspetto che rende sempre interessante seguire e scrivere di musica, è quello di seguire un artista fin dagli esordi, raccontandone quindi nel corso degli anni le evoluzioni e la crescita artistica in diretta. Ad esempio, seguo da tempo le gesta di Joan Shelley, folksinger americana attiva dal 2010, perché, anche nei suoi esordi da indipendente, ha sempre dimostrato di poter dare qualcosa in più ad un genere spesso relegato nella propria nicchia di utenza.
Quello di trasportare la grammatica del brit-folk classico anche oltreoceano, immergendola nei sapori del folk e del country americano, è una operazione che non nasce certo con lei, ma sicuramente il suo album Like the River Loves the Sea del 2019, arrivato dopo che Jeff Tweedy l’aveva sponsorizzata e aiutata nell’opera precedente, è stata una milestone fondamentale in questo processo, che in questi anni, tra l’altro, ha parlato molto spesso al femminile. Dopo la conferma di The Spur del 2022, arriva oggi questo Real Warmth a consacrarla tra i nomi più importanti (e ormai sono tanti) del cantautorato femminile odierno.
Le registrazioni del nuovo disco sono tornate in patria, in Michigan, dopo le trasferte (persino islandesii) dei precedenti lavori, dove con il compagno e chitarrista Nathan Salsburg, e la vicinanza della figlia, ha trovato nuova ispirazione. E la collaborazione di amici e colleghi a noi ben noti come Doug Paisley o Ben Whiteley (bassista dei The Weather Station, anche produttore dell’album) testimonia quanto il suo nome sia ormai considerato tutt’altro che quello di una outsider.
Dal punto di vista compativo questi nuovi 13 brani segnano poi un ulteriore ampliamento del suo spettro di riferimenti, che tornano ad essere più statunitensi, con l’aggiunta di qualche sapore jazz (sentite il sax di Karen Ng in On The Gold and The Silver) o country (Who Do You Want Checking in on You). Insomma, la lezione di Joni Mitchell resta sempre dietro l’angolo per tutte queste nuove regine della canzone elettro-acustica, ma la Shelley, come altre colleghe, ha ben chiaro come far valere la propria personalità, anche nei testi sempre molto personali e originali, che sanno essere poetici e gentili, ma anche crudi quando esprime la propria veemente protesta verso un mondo difficile da comprendere (The Orchard).
Ma è un caso, perché ovunque spira aria di famiglia e idea di comunità (Everybody, ma anche nell’iniziale e programmatica Here in The High and Low), ed è forse proprio questo confronto tra la propria dimensione casalinga, così pacifica e piena d’amore, e l’orrore che regna nel mondo, che ammanta il disco di una inquietudine evidente per un futuro tutt’altro che chiaro (Heaven Knows, Give It Up, It’s Too Much). Sono canzoni da scoprire una ad una, e da ascoltare come al solito nel vostro silenzio, se avete la fortuna di trovarne ancora uno in questo volgare chiasso in cui un disco sussurrato come Real Warmth faticherà a farsi sentire.
Nicola Gervasini
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