giovedì 29 aprile 2010

BROKEN BELLS - Broken Bells



Buscadero
Aprile 2010


Il mondo del rock alternativo e indipendente è in fibrillazione già da qualche mese per questo primo disco dei Broken Bells, nome che non cela una band esordiente, ma bensì una sorta di supergruppo messo in piedi da Brian Burton e James Mercer. Se non lo sapete, il primo è il vero nome di mister Danger Mouse, il poliedrico produttore/artista che ha già sbancato le classifiche con i Gnarls Barkley, colui che si diletta di interagire spesso e volentieri con le glorie del rap moderno, e che è stata la mente musicale dietro titoli di riguardo come Modern Guilt di Beck o il secondo album dei Gorillaz. Il secondo invece è il leader degli Shins, sicuramente una delle più fresche e osannate formazioni del decennio appena passato nel mondo dell’indie-rock, e già la definizione dei due fattori in gioco basta a dare l’idea del risultato finale. 10 brani interamente suonati dai due, che mischiano strutture rock con elementi dance e amenicoli elettronici di vario genere, una formula non certo nuova e rivoluzionaria, ma sempre efficace se dosata con maestria. Togliete quindi il soul dei Gnarls Barkley e inserite il canto un po’isterico e poppish di Mercer, ma il risultato non cambia poi molto, come evidenzia il bel singolo The High Road che apre il disco, mentre invece qualche bella sorpresa viene dal suono da Top of the Pops anni 60 di Vaporize, pop-song di razza che svela il suo essere moderna solo grazie ai filtri applicati sulle voci. Qua e là i due pasticciano (i cambi di tempo di Your Head Is on Fire non vanno da nessuna parte, mentre la pastosa Trap Doors annoia un po’), ma quando provano la via della techno-dance tutta falsetti e coretti (The Ghost Inside) finiscono anche per divertire alquanto. La sensazione comunque è quella di un generale sovraccarico di idee e arrangiamenti, come dimostra Sailing To Nowhere, che probabilmente avrebbe trovato la sua giusta dimensione con qualche intervento elettronico in meno. In ogni caso il disco ha i suoi momenti interessanti come la pop-song alla Blur October o persino gli echi dei Cure anni 80 che affiorano in Mongrel Heart (ma con intermezzo morriconiano, giusto per aggiungere altro sugo al pasticcio) e nella finale The Mall and the Misery. Come spesso succede in questi casi, l’unione di due personalità artistiche non arriva sempre ai risultati attesi, ma in ogni caso anche i Broken Bells riescono a descrivere perfettamente a che punto è arrivata l’evoluzione del pop indipendente.
Nicola Gervasini

martedì 27 aprile 2010

LUCAS DAWSON - Another Way To Say Goodbye


Rootshighway
31/3/2010


L'essere itineranti come condizione della mente, prima ancora che una reale condizione di vita, è nel sangue di qualsiasi australiano, abitante di una terra storicamente di passaggio, continua meta e punto di partenza al tempo stesso di mille avventure. Non sorprende quindi leggere le note biografiche di Lucas Dawson, australiano errante e perennemente in attesa del treno giusto, proprio come nella fotografia della copertina del suo Another Way To Say Goodbye, ma artista indipendente che ha trovato il suo Eden artistico nella fervente Svezia. Registrato a Stoccolma con la produzione dei fratelli Martin e Richard Insulander, rispettivamente anche tastierista e batterista della band che lo accompagna, Another Way To Say Goodbye è un disco che si nutre della ormai proverbiale flemma del folk scandinavo, quella che non si preoccupa del fatto che i dieci brani qui presenti siano quasi tutti di lunga durata e di ritmo lento.

Sarà che il freddo non invoglia alla fretta, ma paradossalmente forse mette anche poca voglia di muoversi per reagire alla depressione, visto il clima spettrale di queste canzoni, eppure nel finale Dawson ritrova il suo sangue caldo e riesce a scuotersi. Il disco infatti vive nelle sue battute conclusive i suoi momenti più rock (la chitarrosa I Hate You), azzardando persino un quasi-reggae contrappuntato di fiati caraibici (I'm Giving Up) e il bellissimo finale pop di Goodbye, splendida melodia cantata in coppia con la voce di Emily Brown. La partenza invece è di quelle che gettano tutto negli abissi della desolazione umana, con titoli come Four Catastophic Years e I'm So Miserable che dicono tutto di un mondo fatto di amori finiti inesorabilmente male (We Were Too Young) e dei classici problemi che vi potete porre crogiolandovi nella vostra tristezza durante lunghi viaggi solitari (What Am I To Do?).

Dawson canta tutto con una voce roca e soffocata che tanto ricorda quella di J Tillman, si aggroviglia spesso sulla sua verbosità, ma quando riesce a trovare la chiave giusta, i suoi brani sono anche molto accattivanti (Ain't Life Cruel ad esempio, sette minuti tra cambi di tempo e un testo pessimista sì, ma con passaggi davvero incisivi fin dall'iniziale "mi taglierò per te dal cuore la parte più debole, lo farò nel modo più difficile e sbagliato, lo farò nell'unico modo che conosco, bruciando tutte le mie memorie, tutti i miei vestiti…"). Il "plus" strumentale arriva comunque dall'ingegnoso chitarrista Nicke Grundberg, spigoloso e mai scontato nel commentare i lamenti di Lucas, un piccolo Nels Cline (Wilco) svedese come scuola di pensiero. Album interessante in ogni caso, anche se con alcuni difetti di prolissità ed eccessiva autoindulgenza che potrebbero essere risolti solo dandogli un minimo di credito e fiducia.
(Nicola Gervasini)


www.lucasdawson.com
www.myspace.com/aintlifecruel

venerdì 23 aprile 2010

FIRST AID KIT - The Big Black & The Blue


26/02/2010
Rootshighway



Quando ci si trova nel lettore un'opera prima di due ragazzine di 16 e 19 anni bisogna sempre fare un paio di fioretti prima di procedere all'ascolto e dare i conseguenti giudizi (per forza di cose affrettati, ma questo è il nostro duro mestiere…). Il primo proponimento è quello di non sottovalutare, perché è vero che nell'adolescenza si fanno mille sciocchezze, ma è pur vero che il rock nasce giovane, che Steve Winwood ha scritto Gimme Some Lovin' proprio a sedici anni e che nulla vieti che un simile miracolo possa accadere di nuovo. Il secondo fioretto invece è "non sopravvalutare", vale a dire non scadere nel "bè dai, per essere delle sbarbatelle, ci sanno fare". Allora pronti e via, inoltriamoci in questo fenomeno del 2010 siglato First Aid Kit, proprio come la cassetta con cerotti e alcool che tenete in ufficio se siete dei fanatici della fu legge 626 oggi 81, combo ristretto formato da due sorelline (Klara e Johanna Söderberg), innamorate del folk britannico come della mitologia nordica, anche loro miracolate della rete se è vero che qualche mese fa è bastato che le due postassero un video su youtube che le vedeva alle prese con una cover dei Fleet Foxes (Tiger Mountain Peasant Song) per divenire il fenomeno del momento.

Speso il dovuto passaggio dell'EP (Drunken Trees), le due giungono all'esordio con un discreto bagaglio di esperienza fatto di tour in Europa e Stati Uniti (ma guardando il lungo e fitto calendario di concerti uno si chiede "ma la piccola Klara non deve andare a scuola?"), ed effettivamente, al di là delle chiacchiere da eternauti, in questo
The Big Black & The Blue c'è effettivamente del talento. Fa una certa impressione guardare i due bei video realizzati per promuovere questo disco (Hard Believer e I Met Up With The King) e vedere uscire queste voci così piene e mature da due visi così inesorabilmente da teen-ager, ma la forza delle First Aid Kid sta proprio in questa incredibile (o sospetta?) maturità di know-how musicale, perché brani come In The Morning, Waltz For Richard o Josefin stanno perfettamente in bilico tra lezioni tradizionali studiate con passione e un certo nu-folk sbarazzino e alla moda di questi anni.

Come poi sia potuto succedere che un disco come questo, basato fondamentalmente su due voci, chitarre acustiche arpeggianti e qualche flauto qua e là, sia potuto diventare qualcosa di "cool" è mistero che solo il caos della rete può giustificare, sapendo magari che con dischi di ben altro passo, ma di simile concezione, altre paladine del genere hanno dovuto ravanare nell'anonimato per anni. Ognuno sia figlio del proprio tempo in ogni caso, le due ragazze nel loro myspace proclamano la loro totale innocenza urlando "We aim for the hearts, not the charts!" e queste 11 piccole perle di saggezza non danno nessun motivo di credere che non sia così.
(Nicola Gervasini)



lunedì 19 aprile 2010

JOHN GRANT - Queen Of Denmark


Buscadero

Aprile 2010


Tra le cose da fare a Denver prima di morire (e non quando siete morti, come pretendeva il buon Warren Zevon) ci sarebbe stato quello di vedersi un concerto degli Czars, sorta di mito locale dell’alternative rock, 6 album spesi tra il 1996 e il 2009, tanti complimenti ma poco successo al di fuori dello stato del Colorado. Troppo tardi ormai, perché la band si è presa un periodo di vacanza, forse definitivo, e allora segnatevi che tra le cose da fare oggi potrebbe invece esserci quella di provare questo sorprendente esordio solista del loro leader John Grant. Queen Of Denmark è un disco nato a New York, dove John è volato per fare da spalla ai Flaming Lips, ma dove ha anche incontrato i Midlake, nuovi paladini del freak-folk statunitense (con 2 ottimi dischi all’attivo), che si sono offerti di suonare e produrre il suo album d’esordio Con loro di mezzo, si può ben immaginare che siamo sempre sulle coordinate di un indie-rock sussurrato, folk-oriented e a tinte pastello, ma se Grant non s’impantana quasi mai lo deve alla sua straordinaria capacità di scrivere quelle che sono a tutti gli effetti delle perfette pop-songs. La sequenza iniziale è micidiale: TC and The Honeybear sta sulle sue con i suoi toni folk, ma già I Wanna Go To Marz ti si attacca addosso e la sensazione è che se fosse uscita nei sixties, oggi sarebbe un classico del brit-pop di prima generazione. La formula non è molto distante da quella degli Czars: elementi di folk, persino tocchi jazzy (Leopard and Lamb, splendida), piano songs (Caramel e la title-track) e qualche incursione timida e sporadica nell’elettronica (JC Hates Faggots). Difficile capire cosa c’entri il pop inglese con l’atmosfera di Denver, eppure qui saltan fuori archi beatlesiani (gli emozionanti sei minuti di Where Dreams Go To Die) o semplici folk-pop-songs da West Coast (Sigourney Weaver – proprio la popolare attrice – ha una struttura decisamente classica in questo senso), fino a eleganti siparietti alla Burt Bacharach (Silver Platter Club). Disco affascinante e ammaliante, Queen Of Denmark piacerà molto a chi l’anno scorso ha trovato in artisti come Barzin il giusto sfogo per le proprie malinconie, qui rilette comunque in tono decisamente più scanzonato.

Nicola Gervasini

giovedì 15 aprile 2010

BEAT FARMERS - Tales Of The New West


Febbraio 2010
Rootshighway


C'erano una volta i Beat Farmers, "avanguardia" del cosidetto rock delle radici che fu…no no, fermate tutto, scusate, questo era l'incipit della recentissima recensione dell'album Fulmination dei Farmers, proprio quella in cui Fabio Cerbone piangeva sulle ceneri di una grande band che fu, che è ancora, ma che non è più quello che era o che potrebbe ancora essere. Invece sopra avete letto bene, qui i Farmers hanno ancora il Beat, e non sono quelli imbolsiti e privi di sprono creativo sentiti l'anno scorso, ma quelli che su queste pagine abbiamo già avuto modo di inserire tra i 100 dischi da Strade Blu degli anni 80. Tales of the New West è per noi da sempre un must have, perché è vero che se nel piccolo commento del nostro listone presentavamo questa musica come "nient'altro che buon vecchio rock'n'roll", ma è pur sempre vero che in queste canzoni scorrono storie che vale ancora la pena raccontare. Ci pensa dunque l'American Beat Records, etichetta specializzata in riesumazioni di cadaveri discografici del passato, a farci ripiombare in pieno 1985, all'apice del fervore della reaganomics e con il mondo della musica monopolizzato dalla guerra tra new romatics inglesi da una parte e i finti rockettari americani da radio FM dall'altra. In mezzo oggi sappiamo che c'era molto da scoprire, un tempo lo si definiva "underground" perché al di sopra si usava strillare talmente suoni, colori e capigliature cotonate che chi l'arte semplicemente la sussurrava, finiva inevitabilmente sottoterra.

E poi c'era il "west", o meglio, non c'era più da tempo a dire il vero, perché il preconcetto universale che voleva il country essere la musica ufficiale dei cowboy tutto lazo e speroni era decaduto da tempo, con Nashville in crisi d'identità, alla ricerca disperata di un suono che fosse sì country, ma che potesse andare bene anche ai nuovi yuppie danarosi e pronti ad acquistare a caro prezzo quel nuovo fantasmagorico oggetto che era il cd, e con Hollywood che aveva permesso negli anni 70 a grandi registi come Sam Peckinpah di distruggere e dissacrare un immaginario che lei stessa aveva creato. Per questo ancora oggi sosteniamo come più che corretta la parola "rivoluzionario" per un disco come
Tales Of The New West, perché l'Ovest raccontato in queste canzoni era davvero nuovo, costruito in quegli anni da pochi altri (i Rank & File e i Long Ryders sicuramente, tutti presenti anche qui in veste di ospiti, ma anche da quello scherzo - che poi tanto scherzo non fu - che furono i Knitters di Dave Alvin e John Doe), e ben rappresentato al cinema dall'improbabile cowboy circense Bronco Billy, personaggio creato da un sottovalutato Clint Eastwood (quando ancora non era creduto un grande regista) proprio per celebrare la definitiva de-mitizzazione del mito western (e massacrato a colpi di progresso dal visionario Michel Cimino dei Cancelli Del Cielo).

I Beat Farmers nascevano da questo spirito di umanizzazione del semidio dei pionieri banchi, ma furono i primi che in tutto questo morire ci trovarono aspetti comici, evidenziati fin dai caratteri usati per la copertina, degni di un film dell'orrore di serie B, dall'immagine che riesumava camicione a quadri di fogertiana memoria, e da un approcio a canzoni altrui che aveva sempre "quel non so che" di presa in giro, ma che finì in questo caso per rendere al mondo le migliori versioni di
Reason To Believe di Bruce Springsteen, There She Goes Again dei Velvet Undergound e Never Going Back di John Stewart. Ma il disco viveva anche di brillantissime composizioni originali, del chitarrista Buddy Blue le migliori (Lost Weekend,Goldmine e Lonesome Hound), dell'altro chitarrista e cantante Jerry Raney le più classiche (Showbiz eWhere Do They Go), di un amico di precedenti avventure musicali (Paul Kamanski) quella California Kid che scatenò (insieme ad un'altra cover, Happy Boy) il vocione del batterista Country Dick Montana, vero e proprio erede naturale non tanto dello scimmiottato Johnny Cash, ma del John Belushi intento a saccheggiare Rawhide nella scena al country-pub del film Blues Brothers (quella che forse meglio di tutte rappresenta quanto il cowboy fosse diventato una macchietta fumettistica). Nient'altro che buon vecchio rock and roll appunto, una rivoluzione iniziata ma mai conclusa però, con i successivi dischi che scivolarono sempre più verso un rock di grana grossa (più da camionisti che da cowboy), e le tragiche morti di Montana e Blue che rendono oggi impossibile al superstite Raney una credibilità sotto il nome dei Farmers. Edizione cd ben masterizzata ma senza le tante bonus tracks della precedente expanded edition della Rhino per tenere il prezzo basso, comprese le stringate note di copertina aggiunte dal curatore Gene Sculatti (storica penna di Rolling Stone). Si poteva fare di meglio, ma intanto, per chi non c'era, c'è da riascoltarsi un grandissimo e indimenticabile disco.
(Nicola Gervasini)

martedì 13 aprile 2010

Intervista ai Falling Martins

Gioie e dolori della vita da indipendente: quella dei Falling Martins è una storia moderna di una band nata sulle strade del Missouri e nei locali di St-Louis, ma arrivata nei nostri lettori cd grazie alle nuove possibilità di comunicazione della rete. Se questo sia un bene o un male lo abbiamo discusso con loro, quanto basta per scoprire che gli applausi ricevuti per il consigliatissimo Live At The Old Rock House sono frutto di una continua evoluzione passata attraverso tre album autoprodotti in studio pieni dei tanti salutari errori dell'inesperienza, ma anche di ottime canzoni che portate sul palco hanno saputo risaltare al meglio. Li incontriamo ora che sono una band matura e conscia delle proprie possibilità, come dimostrato in un lavoro compiuto come Shining Bright, ma anche dal vantaggio di essere una combinazione di svariate provenienze musicali alla quale sembra impossibile riuscire a mettere il cappello di una definizione generica. Ci abbiamo provato con Rich Wooten, Paul Tervydis e Pierce Crask a cercarne una giusta, ma alla fine tra blues, jazz, folk e country, Uncle Tupelo o Widespread Panic, Americana o chissà cos'altro, sembra prevalere la voglia di sperimentare e scrivere canzoni sempre più importanti, consci che la jam sul palco resta fine a se stessa se non c'è anche un brano di spessore a sostenerla. Non è un caso che tra i cinque dischi che meglio li rappresentano, a loro detta, ben tre appartengono a songwriters puri. Con la speranza che riescano a realizzare il loro sogno di suonare nel nostro paese, ecco il resoconto di una piacevole chiacchierata…
(intervista a cura di Nicola Gervasini - traduzione di Fabio Cerbone)

www.fallingmartins.com


L'intervista

Prima di tutto complimenti per la vostra musica. Non è facile trovare una categoria per descriverla, penso che l'insieme dei vostri stili ricordi soprattutto il circuito delle jam band degli anni '90, come Widespread Panic o Blues Traveler ad esempio. Vi sentite in qualche modo figli di quel movimento?

Rich Wooten - Grazie! Sono d'accordo che sia difficile da categorizzare. Molte persone che apprezzano la nostra musica sono fan di band quali Widespread Panic e Blues Traveler. Nutro rispetto per queste band, hanno contribuito a riempire il vuoto lasciato nei '90 dai Grateful Dead. Ma personalmente in quegli anni io stavo seguendo la musica di Son Volt, Wilco, Matthew Sweet e Bob Dylan. Il nostro nuovo percorso in Shining Bright si è spostato dal sound delle jam band.

Paul Tervydis - Per quel che mi riguarda sono stato molto influenzato da Bruce Hornsby, che è stato spesso inserito nel novero delle jam bands degli anni '90, o per lo meno in quel periodo. Essendo un fan della musica di Bruce, sono stato coinvolto da quella dei Grateful Dead e sono diventato un ammiratore tanto della loro musica quanto della loro filosofia dei live show. Sai, tutta quella filosofia di improvvisazione per cercare costantemente di entrare nella tua anima e inventare una qualche nuova via per suonare sul palco - cercando di intensificare l'espressione originale della canzone - tutto questo ha avuto una grossa influenza su di me. Penso tuttavia che una buona fetta del nostro songwriting abbia una forte connotazione dal punto di vista dei testi, mentre un sacco di jam band di oggi tendono a non considerare molto la sostanza delle liriche, sono più interessati all'aspetto dell'improvvisazione musicale

Siete originari di St. Louis, che tipo di scena musicale si muove nella vostra città? Avete avuto qualche collaborazione con band o artisti di St. Louis?

Pierce Crask - Si trova un po' di tutto da queste parti, blues, rock, jazz, country, hip hop. Non collaboriamo davvero con molte persone, ma Mike Martin (il proprietario e ingegnere del suono al Broom Factory Studio) è stato parte integrante della nostra cresicta.

Rich Wooten - St. Louis non ha al momento una vera e propria scena, anche se ci sono alcune ottime band da queste parti. I Bottle Rockets ad esempio sono una fantastica band che arriva dall'area di St. Louis. Il nostro tecnico del suono Mike Martin ha lavorato con un sacco di grandi musicisti del posto, tra cui Jay Farrar, così esiste una sorta di legame indiretto attraverso la sua persona e siamo stati fortunati ad avere il supporto di Mike. Chuck Berry vive ancora a St. Louis e continua a suonare qui. È fantastico pensare di avere qualcuno qui in St. Louis che ha influenzato tutti i giganti del rock'n'roll, da Buddy Holly a Elvis Presley, Beatles, Rolling Stones e Bob Dylan.

Riuscite a suonare molto anche al di fuori del Missouri oppure è difficile per una band locale uscire dai propri confini?

Rich Wooten - È complicato per noi muoverci, non avendo un manager o un'etichetta, ci piacerebbe averne l'opportunità.

In Italia ci sono parecchie persone che apprezzano il vostro tipo di musica, ma è difficile riunirli in un unico posto per un concerto, per questo è sempre molto complicato per le band americane venire dalle nostre parti. Sapete che gente come Tom Petty, Bob Seger o John Mellencamp non sono mai venuti in tour in Italia per ragioni legate agli alti costi, e molti artisti arrivano da noi senza musicisti al seguito. Pensate che essere un'entità come una band sia un ostacolo per un grosso tour in Europa?

Pierce Crask - Sono sicuro che per produzioni più grandi ci siano molti problemi di tipo logistico, ma noi siamo una questione molto più semplice e diretta. Credo che mettere insieme le date e i luoghi per i concerti sarebbe l'ostacolo più grosso, salire sul palco e suonare la nostra musica sarebbe facile.

Rich Wooten - Se avessimo il successo commerciale di uno qualsiasi di questi artisti (Seger, Petty, Mellencamp) posso assicurarti che troveremmo un modo per girare in tour per l'Europa. Voglio che i Falling Martins suonino in Italia, è il mio obiettivo principale in questo momento con la band. Abbiamo suonato circa 800 show dalle nostre parti, è giunta l'ora di muoverci in qualche altro posto

Abbiamo conosciuto i Falling Martins attraverso il passaparola sul web riguardo al disco Live At The Old Rock House, che abbiamo molto apprezzato. Vent'anni fa senza una grande etichetta che distribuisse la vostra musica probabilmente questo non sarebbe successo. Come vivete la vostra condizione di musicisti indipendenti? Cambiereste tutto ciò per un contratto con un'etichetta che vi fornisse più visibilità, ma minore libertà in studio?

Paul Tervydis - Il modo di essere musicista è cambiato tantissimo negli ultimi vent'anni, sia nel bene che nel male. Le tecniche di registrazione hanno portato praticamente possibilità illimitate e vantaggi per l'artista che vuole registrare le sue composizioni, e i computer e internet hanno fatto si che una band del Midwest facesse arrivare la sua musica in Italia. Può essere una bella cosa avere a disposizione la tecnologia per registrare e far conoscere la propria band, senza essere sotto il controllo di un'etichetta. Ma la tecnologia, anche se conveniente, offre tali e tante opportunità da confondere la concentrazione di un artista (i limiti a volte possono essere un fatto positivo!). Inoltre credo che i vecchi metodi di registrazione analogici infondessero delle qualità quasi "magiche" ai dischi, cosa che oggi non accade nel regno del digitale. La cosa positiva del vecchio modello di music business era che gli artisti potevano concentrarsi per gran parte del tempo sulla loro musica, mentre adesso devono bilanciare il loro tempo fra l'essere musicisti, produttori, tecnici e uomini d'affari. Visto il folle mondo in cui viviamo, penso che la nostra band stia facendo un buon lavoro nel bilanciare tutto questo al melgio delle nostre possibilità, ma è veramente difficile curarsi di tutto ciò e al tempo stesso mantenere la concentrazione sull'aspetto creativo, potrei andare avanti per ore su questi argomenti, ma come qualsiasi altro aspetto della vita tutto si riduce ad una lotta fra Convenienza contro Qualità, e su come sia difficile scegliere la qualità in un mondo che in larga parte sposa la convenienza

Pierce Crask - Penso che stia diventando sempre più chiaro che gli artisti non hanno davvero bisogno delle etichette discografiche come una volta. Detto questo, non scambierei mai la libertà per i soldi, li prenderei entrambi, grazie.

Rich Wooten - La risposta dall'Italia per quanto riguarda Live At The Old Rock House è stata sorprendente. Il ritorno positivo dall'Europa ha motivato ancoa di più i Falling Martins nel proseguire in quello che stavamo facendo. C'è un vero apprezzamento per questo tipo di musica in Italia e la cosa ci fa piacere

Un lungo doppio album dopo soli tre dischi è qualcosa che si può aspettare da una jam band. Vi considerate una live-band o pensate che il lavoro di studio sia predominante nella vostra vita artistica?

Rich Wooten - Sono d'accordo, pubblicare un doppio album dal vivo è abbastanza raro per una band come la nostra. Ma la vita è corta. Le canzoni dei nostri primi tre dischi di studio sembravano evolversi e continuavamo a suonarle sul palco. È stato bello poterle registrare ancora. Il tempo speso in studio di registrazione è molto ristretto rispetto a quello che spendiamo suonando dal vivo. Mi piacciono entrambe le situazioni, ma suonare dal vivo è la nostra vera essenza.

Paul Tervydis - Cerchiamo di sperimentare giusto un poco, ma non ci vedrai spendere delle ore in studio per trovare un suono di chitarre che non si è mai sentito prima. Prendiamo sul serio il lavoro in studio, ma spendiamo certamente molto più tempo sul palco

Bill Mauldin's Star ha un sound molto diverso se paragonato al resto di Shining Bright, in altri tempi sarebbe stato un grande singolo, è molto radiofonico. Ma anche la sua storia è davvero speciale, è dedicata ad un cartoonist di St. Louis durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale. Cosa mi potete raccontare di questa canzone?

Rich Wooten - Si, Bill Mauldin's Star è una canzone diversa e potrebbe essere un brano popolare. Per quanto riguarda l'origine della canzone, c'è una strada in St. Louis chiamata Delmar Loop. I marciapiedi lungo la via hanno una 'Walk of Fame', con targhe a forma di stella simili a quelle di Hollywood Boulevard in California. A parte il fatto che queste targhe sono dedicate a grandi cittadini di St. Louis. Alcune di queste persone sono famose anche nel mondo come Chuck Berry, Miles Davis, T.S. Elliot, Maya Angelou. Altre non sono così famose. Ero seduto ad un cafè all'aperto in Delmar Loop durante una sera di luna piena e notai la targa di Bill Mauldin sul marciapiede. Non avevo mai sentito parlare di lui. Era una notte perfetta e pensai che Bill Mauldin's Star sarebbe stato un grande titolo per una canzone. Incominciai subito a scrivere le parole e uscirono di getto. Le liriche sono molto libere e di base forniscono un'istantanea del Loop in quella particolare serata. Andai a casa per scrivere la musica tutta la notte e buona parte del gorno dopo. Mesi dopo quando la registrammo, tutti nel gruppo compreso il nostro tecnico del suono, hanno aggiunto il loro contributo personale alla canzone, migliorandola.

Al contrario Outside The Door ha un suono che potremmo sentire da una bar band di Austin, con un piano rock e ruvide chitarre. Pensate che la vostra musica possa essere definita come Americana, come gli Uncle Tupelo ad esempio

Rich Wooten - Si, la nostra musica può essere definita Americana e paragonare il nostro sound in Outside the Door ad una bar band di Austin è un gran complimento, grazie. Jay Farrar ha scritto Outside the Door e il brano contiene molti riferimenti musicali a St. Louis, alla storia musicale della città che comprende ragtime, jazz and blues. Gli Uncle Tupelo si sono formati a Belleville, illinois, che è una sorta di sobborgo di St. Louis aldilà del Mississippi. Il suono degli Uncle Tupelo è una grande influenza e i membri dei Tupelo furono influenzati da Doug Sahm, il grande musicista texano, registrarono con lui (sul disco Anodyne del 1994, ndr). Così è tutto collegato.

Paul Tervydis - Tutta la nostra band è influenzata direttamente o indirettamente dalle forme tradizionali della musica americana: blues, jazz, folk e country. Per quel che mi riguarda comunque le mie principali ispirazioni sono più indirette e tendono ad arrivare da una specie di "onda" delle influenze precedenti. In altre parole i miei punti di riferimento (Bruce Hornsby, Keith Jarrett, Pat Metheny) sono stati essi stessi influenzati dalle forme della tradizione come blues, jazz e country ma le hanno mischiate con un suono più moderno che supera i singoli generi tradizionali. Alle mie orecchie la maggior parte delle band classificate come Americana oggi sono soprattutto influenzate dal country, dal folk e dal rock, che a sua volta è influenzato dal resto. Così non credo sia sbagliato definirci Americana, ma sento che c'è qualcosa di più nel nostro suono che non semplicemente il mix di generi citati in precedenza.

Voi cinque arrivate tutti da diversi percorsi musicali, e questo significa diversi stili all'interno della vostra musica. Come nascono le vostre canzoni?

Rich Wooten - Le nostre canzoni evolvono, nel gruppo c'è un grande accordo. Pierce Crask scrive la maggior parte delle nostre canzoni e di solito lascia che ciascuno agguinga il suo contributo creativo. A volte le canzoni ci parlano e ci dicono di cosa hanno bisogno.

Paul Tervydis - Quando Pierce e Rich scrivono una nuova canzone cerco di restare il più possibile fedele alla sua forma e struttura mentre nello stesso tempo cerco di trovare un modo per immettere un suono che mi colpisca ancora di più. Di solito apprezzo davvero le loro canzoni fin dall'inizio, così mi chiedo "cosa posso portare a questa canzone perché mi piaccia ancora di più?". Questo è quello che cerco sempre di fare, sia in studio sia dal vivo, anche se abbiamo già suonato quella particolare canzone cinquecento volte in passato. Ho speso molto del mio tempo studiando cose come teoria musicale, accordi, scale ecc., così solitamente riesco ad immaginarmi qualcosa di interessante da aggiungere.

Cosa ci dobbiamo aspettare dai prossimi dischi dei Falling Martins?

Pierce Crask - Una maggiore crescita artistica.

Rich Wooten - Il nostro suono continuerà a maturare, il nostro songwriting si sta facendo più forte di giorno in giorno e il suono sta diventando sempre più esclusivo e personale.

Aiutatemi a trovare cinque dischi di altri artisti che potrebbero descrivere la vostra musica alle persone che non hanno mai sentito prima il nome dei Falling Martins

Falling Martins - 1. Bob Dylan, Blood On The Tracks 2. Wilco, Being There 3. Steve Earle, Washington Square Serenade 4. Bruce Hornsby, Spirit Trail 5. John Prine, The Missing Years

domenica 11 aprile 2010

ALBERTA CROSS - Broken Side Of Time


Aprile 2010

Buscadero


Un tempo capitava che bastasse un semplice 45 giri per far parlare di un gruppo come della nuova speranza del rock, creando attese generalmente smisurate per la loro opera prima. Oggi non sono i 45 giri, ma gli EP, vero e proprio simbolo discografico di questi anni 2000, ma la storia non cambia. E così agli Alberta Cross è bastato un semplice cd di mezz’ora (The Thief & The Heartbreaker) per far parlare di sé nell’estate del 2007, e a posteriori anche con buone ragioni riascoltando quel breve gioiellino. Sono passati tre anni prima di poter finalmente avere tra le mani questo Broken Side Of Time, primo album che ha avuto una gestazione lunga e tormentata. Troppo evidentemente, perché è impossibile non nascondere una certa delusione nel sentire come tanto tempo sia solo servito a trasformare la varietà e la personalità del piccolo esordio in un monolitico muro di chitarre acide e idee rubate a destra e a manca, senza averne di chiare e proprie. Maledetto sia quindi il non aver sfruttato il momento favorevole per fare tre anni fa un disco intero che rimanesse veramente nella memoria, quando invece qui abbiamo un prodotto tutt’altro che da buttare via, ma che fra qualche anno valuteremo come una tipica espressione di un’epoca che ci sembrerà vecchia e sorpassata, come certi dischi minori dell’era grunge che ora giacciono sotto quattro dita di polvere in molti scaffali del globo. Personalmente li definisco dischi stagionali, quelli legati ad un suono di moda in un epoca ben precisa, che hanno una data di scadenza e non mirano all’immortalità, e il leader degli Alberta Cross Peter Erickson Stakee sembra essersi preoccupato di far colpo oggi, senza pensare al domani. Per cui eccovi un mix ormai fin troppo noto di psichedelia acida alla My Morning Jacket, gorgeggi che sanno di Jane’s Addiction d’annata e chitarre sguaiate e portate a volumi sempre sopra le righe dal produttore Mike McCarthy, uno che altre volte, maneggiando materiale simile (penso agli Heartless Bastards) o comunque di valore (la penultima Patty Griffin o gli Spoon), aveva dimostrato molta più versatilità e senso della misura. Il fatto è che si diventa sospettosi quando tanto rumore sovrasta il tutto, perché si ha la sensazione che ci sia qualcosa da nascondere, quando invece con un orecchio più attento si scopre che anche qui di buone canzoni ce ne sono (Leave Us And Forgive Us, Old Man Chicago o la chiusura di Ghost Of City Life), ma che non sono state fatte risaltare nel dovuto modo. Accettiamo dunque questo disco con tutte le riserve del caso, ma da oggi proviamo ad ignorarli, forse senza troppe pressioni riusciranno a recuperare l’estro e la fantasia che avevano già dimostrato.

Nicola Gervasini

giovedì 8 aprile 2010

HAYSEED DIXIE - Killer Grass


Rootshighway
22/3/2010


Il rappporto tra rock e ironia non è mai stato troppo idilliaco, perché in qualsiasi sua veste o accezione (country, blues, tutto quello che volete mettere sotto la definizione generica di "rock"), questa musica, nata fin dal nome per scuotere e roteare il sedere, ha sempre tentato di prendersi ed essere presa sul serio. Ma senza tirare in ballo il genio satirico di Frank Zappa, veramente riconosciuto solo quando ha fatto finta di fare musica "adulta", basta anche solo ricordare quanto l'elemento comico fosse preponderante anche nelle opere classiche di Beatles e Bob Dylan per affermare (con l'aiuto di Mick Jagger) che oltre ad essere solo rock and roll (ma ci piace), è anche "a gas", uno spasso insomma. E così gli Hayseed Dixie, gruppo dedito ad uno strambo demenzial-bluegrass, hanno passato tutti gli anni 2000 come oggetto di culto per indomiti nerds dediti al trash, come accadeva da noi magari alle cassette pirata di Elio e le Storie Tese gli anni prima dei loro fortunati dischi ufficiali.

Nati come cover-band in salsa bluegrass degli AC/DC (provate a leggere il loro nome con lo stesso accento…), ai quali hanno dedicato tutto il loro primo album del 2001, gli Hayseed Dixie hanno avuto anche il merito di essersi inventati la definizione di "Rockgrass" (Let There Be Rockgrass del 2004 - altro titolo omaggio alla banda di Angus Young - è il loro album più celebrato), sempre utilizzando la strada delle covers irriverenti mischiate ad originali degni del Mojo Nixon meno controllato.
Killer Grass arriva dopo No Covers del 2008, album che aveva deluso un po' tutti per la scelta di abbandonare le riletture comiche, strada che qui viene prontamente ripresa con una versione tutta mandolini e violini di Bohemian Rhapsody che è già un cult della rete grazie al video annesso, "fedele", si fa per dire, all'originale dei Queen. E poi ancora classici senza tempo come Who Won't Get Fooled Again degli Who, Sabbath Bloody Sabbath dei Balck Sabbath, scomodando addirittura Mozart nella title-track e rigirando la Omen dei Prodigy in versione per farmers e maiali della provincia americana.

Al cd è abbinato anche un DVD con dei video più che esplicativi della loro irriverenza, improbabili "duelling banjos" con percussionisti africani, ironici video di didattica per neofiti del banjo e persino finti spot in favore dei preservativi. Dove potrebbe stare il nostro interesse in tutto ciò? Sicuramente nel fatto che, scherzi a parte, gli Hayseed Dixie sono un'ottima bluegrass-band, capaci di avere sound, ritmo e coesione. Non saprei dire se basta, forse proprio il già citato Mojo Nixon sullo stesso terreno ha avuto ben altre intuizioni, e Killer Grass è in grado solo di regalare una buona mezz'oretta di divertimento.
(Nicola Gervasini)

lunedì 5 aprile 2010

GRAHAM PARKER - Imaginary Television


15/03/2010
Roothighway


"Non giudicare un libro dalla copertina" dice un vecchio detto, ma, con un minimo di statistica, sarebbe facile scoprire che sì, a volte anche l'abito fa il monaco. Imaginary Television, nuova fatica di Graham Parker, si presenta subito male, con un'orrenda copertina da corso base di Powerpoint che purtroppo anticipa quello che potrebbe risultare il peggior disco della splendida carriera di questo brit-rocker americanizzato. Non il più "brutto" esteticamente forse, perché scavando nella sua discografia minore si possono magari citare i suoni da denuncia penale di The Real Macaw del 1983, ma in quel caso c'era comunque una storia da raccontare, un gruppo abbandonato (i Rumour) per cercare di rimanere al passo con i tempi e vendere quel paio di copie in più che garantissero un contratto con una major, conditio sine qua non per sopravvivere agli anni 80. Qui invece abbiamo un dischetto che si ascolta senza patemi, con un non-sound che si basa tutto sulla solita chitarrina di Parker (che dovrebbe arrendersi all'idea che senza una valida sei corde a fianco può fare ben poco), basso, batterie e pochissime variazioni sul tema.

E il vero problema non è neanche la
homemade production, Parker infatti vi si è rintanato fin da Struck By Lightning del 1990 e fino ad oggi era riuscito sempre a dare un senso ad ogni sua sortita, per quanto spartana e fuori dal tempo. C'era l'album filo-folk (12 Haunted Episodes), l'album filo-soul (Acid Bubblegum), l'album filo-country (Your Country), l'album filo-rock (Songs of No Consequence) fino all'highlight dell'album filo-roots (Don't Tell Columbus). Qui invece non sappiamo neanche come definirlo, Imaginary Television sembra un disco di scarti del suo predecessore, potremmo definirlo solo filo-Parker, ma anche lui appare svogliato e poco coinvolto nello sciorinare 35 minuti poveri di canzoni significative e desertici in termini di idee musicali, e tutto fa pensare che sia un album amico proprio di nessuno. Certo, i "parkerilla fans" riusciranno magari a trovare ugualmente compiacimento dai versi taglienti di Weather Report o dalla bella Broken Skin (forse l'unico episodio che vale il suo buon nome), ma poi resta poco altro.

Passate infatti le prime due tracce, con una sensazione di sufficienza raggiunta per minimo sindacale, si piomba in una serie di spaventosi déjà vu parkeriani (con l'accoppiata centrale
Always Greener e See Things My Way si tocca forse il fondo dell'auto-plagio), senza futuro e soprattutto con davvero pochi spunti d'interesse. Quando l'album tenta di darsi una sferzata con il finale di More Questions Than Answers e 1st Responder è ormai troppo tardi, convincere le nuove generazioni che nella penna di quest'uomo passano alcune delle migliori pagine del songwriting moderno sarà difficile con un prodotto così povero e frettoloso. Il sabato notte è morto e lo hanno ucciso gli altri, ha sempre ragione lui, ma ora comincia ad esserci un po' di sangue anche sulla sua camicia.
(Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...