Aprile 2010
Buscadero
Un tempo capitava che bastasse un semplice 45 giri per far parlare di un gruppo come della nuova speranza del rock, creando attese generalmente smisurate per la loro opera prima. Oggi non sono i 45 giri, ma gli EP, vero e proprio simbolo discografico di questi anni 2000, ma la storia non cambia. E così agli Alberta Cross è bastato un semplice cd di mezz’ora (The Thief & The Heartbreaker) per far parlare di sé nell’estate del 2007, e a posteriori anche con buone ragioni riascoltando quel breve gioiellino. Sono passati tre anni prima di poter finalmente avere tra le mani questo Broken Side Of Time, primo album che ha avuto una gestazione lunga e tormentata. Troppo evidentemente, perché è impossibile non nascondere una certa delusione nel sentire come tanto tempo sia solo servito a trasformare la varietà e la personalità del piccolo esordio in un monolitico muro di chitarre acide e idee rubate a destra e a manca, senza averne di chiare e proprie. Maledetto sia quindi il non aver sfruttato il momento favorevole per fare tre anni fa un disco intero che rimanesse veramente nella memoria, quando invece qui abbiamo un prodotto tutt’altro che da buttare via, ma che fra qualche anno valuteremo come una tipica espressione di un’epoca che ci sembrerà vecchia e sorpassata, come certi dischi minori dell’era grunge che ora giacciono sotto quattro dita di polvere in molti scaffali del globo. Personalmente li definisco dischi stagionali, quelli legati ad un suono di moda in un epoca ben precisa, che hanno una data di scadenza e non mirano all’immortalità, e il leader degli Alberta Cross Peter Erickson Stakee sembra essersi preoccupato di far colpo oggi, senza pensare al domani. Per cui eccovi un mix ormai fin troppo noto di psichedelia acida alla My Morning Jacket, gorgeggi che sanno di Jane’s Addiction d’annata e chitarre sguaiate e portate a volumi sempre sopra le righe dal produttore Mike McCarthy, uno che altre volte, maneggiando materiale simile (penso agli Heartless Bastards) o comunque di valore (la penultima Patty Griffin o gli Spoon), aveva dimostrato molta più versatilità e senso della misura. Il fatto è che si diventa sospettosi quando tanto rumore sovrasta il tutto, perché si ha la sensazione che ci sia qualcosa da nascondere, quando invece con un orecchio più attento si scopre che anche qui di buone canzoni ce ne sono (Leave Us And Forgive Us, Old Man Chicago o la chiusura di Ghost Of City Life), ma che non sono state fatte risaltare nel dovuto modo. Accettiamo dunque questo disco con tutte le riserve del caso, ma da oggi proviamo ad ignorarli, forse senza troppe pressioni riusciranno a recuperare l’estro e la fantasia che avevano già dimostrato.
Nicola Gervasini
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