lunedì 27 agosto 2012

CHRIS SMITHER



 
 
 Chris Smither Hundred Dollar Valentine
[Signature sounds 
2012
]
www.smither.com

 File Under: lonesome hobo, songwriter

di Nicola Gervasini (09/07/2012)

Ci sono angoli di mondo che restano immuni a qualsiasi crisi economica, guerra, moda o rivoluzione sociale. Quegli angoli si chiamano songwriters, quelli che magari da anni girano il mondo cantando imperterriti le proprie canzoni a piccole platee, producendo dischi perlopiù dimenticati e persi nei meandri del mondo degli appassionati. Gente come Chris Smither insomma, più di quarant'anni di carriera senza aver mai lasciato nulla che appaia in un'antologia del rock, e spesso neppure nelle liste dei grandi folk/country singer usciti dal calderone degli anni settanta. D'altronde lui, come ad esempio anche Ray Wylie Hubbard, è stato uno che solo negli anni novanta è riuscito a liberarsi dalla morsa tremenda degli uffici marketing delle majors e avere una produzione regolare. Discografia di tutto rispetto la sua, dove anche cogliendo a caso troverete pane per i vostri denti se ritenete Guy Clark (per dirne uno molto simile per stile e timbro di voce) un vostro mito personale.

Normalmente ci si riferisce ad Up On The Lowdown del 1995 come al disco della sua rinascita e dunque quello più consigliato, ma il livello non è mai sceso neanche in questi anni 2000, e non fa eccezione questo Hundred Dollar Valentine, che ha la particolarità di essere il suo primo album senza cover o reinterpretazioni di vecchi brani. D'altronde lo Smither autore cammina da tempo con le proprie gambe, e non è difficile pensare che qualche grande country-singer possa avere voglia di rileggere brani come la splendida On The Edge o la sofficeWhat They Say, titoli che si prestano anche a sofisticati ed elaborati arrangiamenti country-pop volendo. Ma lo Smither performer invece continua ad amare il suono scarno della sua acustica, a cantare come se stesse usando l'ultimo filo di voce rimasto, a toccare spesso e volentieri tonalità blues (I Feel The Same). Ma alla fine è nelle delicate ballate che il nostro riesce sempre a dare il meglio, quando duetta con Anita Suhanin nel country leggiadro di Place In Line o quando si copre con la bella sezione d'archi di Feeling By Degrees.

Sta proprio nella sua versatilità il grande pregio di Hundred Dollar Valentine, che appare subito come uno dei suoi lavori più curati in sede di arrangiamento, e qui bisogna ringraziare il produttore David "Goody" Goodrich(già visto in azione con Jeffrey Foucault), uno che non ha colpi di genio ma solo il grande dono di sapere sempre dove intervenire. Decisivo anche l'apporto di ottimi musicisti come il batterista Billy Conway e l'armonicista Jimmy Fitting, vale a dire metà dei Treat Her Right che furono (e dei Morphine che poi diventeranno sostituendo Fitting con un sassofonista), oppure del violista Ian Kennedy (sentito con Robert Plant e Susan Tedeschi). Siamo alle solite in ogni caso, Smither non fa mai gridare al miracolo e mantiene sempre quel tono dimesso che tiene al riparo chiunque da facili esaltazioni. Eppure mai come in questo caso lo senti necessario per certi momenti della vita.

martedì 21 agosto 2012

LOWLANDS & FRIENDS...



 Lowlands & FriendsBetter World Coming[Gypsy Child Rec  2012] 

www.lowlandsband.com


 File Under: folk history lesson


di Nicola Gervasini (06/07/2012)

Prologo:
Chiedo a mio figlio il suo libro di musica, classe prima media. Lo sfoglio. Rispetto ai nostri tempi (i primi anni 80) i passi da gigante a livello di apertura culturale sono evidenti. Se fosse stato per i nostri libri di scuola, la mia generazione avrebbe immaginato il nulla dopo Giuseppe Verdi. Invece qui si spiega cos'è il blues, il folk, l'hard rock, ci trovi gli spartiti dei Beatles accanto a quelli di Beethoven e Madonna. Allora provo a cercarlo, ma nulla, si parla di Dylan, ma di lui niente. Finché, in un breve riassunto sulle correnti degli anni sessanta, leggo che "gli interpreti più importanti del folk-rock sono Bob Dylan, Joan Baez e Woody Guthrie". Tutto sbagliato e opinabile ovviamente, ma almeno c'è, e almeno anche i nostri ragazzini cominciano a leggerne il nome.

Sviluppo:
Quest'anno sono cento anni dalla nascita di Woody Guthrie, ma casualmente anche cinquanta esatti da Song To Woody, esordio self-penned di Bob Dylan del 1962. Bisognava aspettare Dylan perché l'America (quella pensante ovviamente…) si accorgesse di quanto quest'uomo abbia lasciato in termini di influenza artistica e capacità di lucida lettura della realtà. E mancavamo forse giusto noi italiani a registrare un tribute-album in suo onore (il primo, forse il migliore, resta A Vision Shared del 1988, condiviso con Leadbelly), noi, popolo di santi, poeti e navigatori che di questo tipo di folk si è cibato solo indirettamente, magari tramite i vari Guccini, De Gregori o Bennato (che nel 1975 eseguiva spesso Deportee nei sui già seguitissimi concerti), ma che con il verbo del folk americano abbiamo sempre avuto qualche problema a familiarizzare, vista l'estrazione british-prog della maggior parte dei nostri musicisti (e critici aggiungerei) degli anni settanta.

Better World Coming non ha la pretesa di coprire un buco che in fondo potrebbe anche restare scoperto, è, per stessa ammissione di Edward Abbiati e dei suoi Lowlands che lo hanno realizzato, un progetto nato per caso tra cucine, scantinati e studi di registrazione veri e propri, con l'idea di riunire amici sotto l'ala di alcune canzoni che fanno parte del loro DNA. E qui sta l'importanza dell'album, quello di avere dimostrato come anche una scena musicale piccola ma viva come quella di Pavia ("ma ci siamo allargati anche fino a Vigevano e Magenta" assicurano loro…) abbia davvero incamerato una lezione che non fa parte della cultura italica soltanto perché nella visione nostrana di "ciò che è cultura" facciamo ancora molta fatica ad uscire dai nostri confini. Tra gli "amici" non c'è nessun nome famoso che possa attirare folle al di fuori delle note nicchie di amanti del folk, solo musicisti ben noti su queste pagine (perdonate se non riscriviamo il lungo elenco) che presenziano con puntualità e devozione alla causa. Quanto basta per riascoltare in buona versione brani noti come I Ain't Got No Home o This Train Is Bound For Glory (la ovvia This Land Is Your Land viene usata solo come apertura e chiusura strumentale), ma anche tanti titoli che non sono stati rivisitati poi spesso come Two Good MenStepstone 9 oHeaven My Home. Abbiati si concede un giro in solitaria nella title-track, ma il clima da riunione tra vecchi compari è evidente, dando al disco un ruspante senso di provvisorietà. Il vero nuovo album dei Lowlands uscirà infatti a settembre, questo è forse "solo" un estemporaneo assaggio fatto con qualità e passione. E come tale va goduto fino in fondo.

Epilogo:
Ho dato a mio figlio la mia copia di Better World Coming, gli ho spiegato chi è l'uomo in copertina che ammazza i fascisti con la chitarra, e chi sono i tizi che suonano. Lui ha preso e ascoltato. Probabilmente l'accantonerà per qualcosa di più adatto alla sua età, ma se un giorno se ne ricordasse, allora il perché di questo disco sarà ancora più evidente.

lunedì 13 agosto 2012

PARLOTONES


PARLOTONES
JOURNEY THROUGH THE SHADOWS
Ais/EarMusic
**

In Sud Africa sono delle star di prima grandezza, dalle nostre parti invece ancora devono trovare i giusti canali per il successo, anche se del precedente disco Stardust Galaxies si è comunque molto parlato anche in Europa. I Parlotones vengono da Johannesburg, alfieri di un pop-rock che tiene un piede nel rock alternativo da garage e uno in quello furbetto delle radio alla moda. Struttura classica (due chitarre – basso – batteria), grafica che richiama gli anni doro del garage-rock e una forte propensione alla three-minute-song che piace sempre ai palinsesti per teen-ager, la band, capitanata dal cantante Kahn Morbee, produce con Journey Through The Shadows un album insieme furbo e maturo, in cui alla facilità di memorizzazione dei ritornelli di Soul And Body  fa da contro-altare una scrittura che cerca di uscire dalle briglie della teenager-song. Per i confronti si fanno i nomi dei Killers, magari più impropriamente dei Muse (non ne hanno la stessa magniloquenza), mentre le aperture pop di Save Your Best Bits non possono non richiamare alla mente i Coldplay, di cui sono stati anche gruppo-spalla.  Se la produzione non disdegna di tenere alti i volumi e sottolineare le melodie come si richiede ad un disco nato per piacere, ci pensa la chitarra di Paul Hodgson a dare quel tocco di provvisorietà da rock da cantina che permette al disco di risultare comunque “vero” nonostante la produzione volutamente sopra le righe.  D’altronde loro sono una band che sta facendo tute le tappe tipiche delle star, dalle spettacolari iniziative benefiche (scaleranno il Kilimanjaro come testimonials di Africa-Unite, associazione contro la violenza sulle donne in Africa) a quelle nei social network (loro l’idea di una sorta di tessera fedeltà dei fans che accumuleranno punti comprando cd e partecipando a concerti, avendo così diritto a benefit come il non dover fare la coda ai concerti). Quello che resta però ancora lontano dal mondo della grande canzone è proprio la statura artistica di tutto il disco, che si ascolta senza troppo impegno, ma che solo in alcuni episodi (HoneyDown By The Lake, per le quali immaginatevi una svolta più commerciale dei Gaslight Anthem, o una I Am Alive che cerca gli U2) risveglia un vero e proprio interesse. We Just Want To Be Loved rispondono loro, coadiuvati pure da coro di bambini, e davvero in questi casi non ci sono altre grandi parole da spendere. Come cantavano gli XTC, “Come si chiama quel rumore che esce dal Jukebox?”. La risposta, ricorderete, era “Questo è pop, Yeah Yeah”.
Nicola Gervasini

lunedì 6 agosto 2012

OF MONTREAL...


OF MONTREAL
PARALYTIC STALKS
Polyvnyl Rec.
***

“Di Montreal” era solo la ragazza che ispirò lo strano nome della band, ma loro sono di Athens, la città che i R.E.M. elessero anni fa a capitale del rock alternativo (prima di loro in città si viveva ancora sul mito dei Troggs). Da sempre sinonimo di incatalogabilità, la musica degli Of Montreal colleziona complimenti del mondo dell’indie- rock che conta fin dal 1997, anno del loro esordio discografico.  Paralytic Stalks è il loro dodicesimo album, o il “suo” bisognerebbe cominciare a dire, visto che sempre più il timone artistico della sigla dipende dal solo Kevin Barnes, autore di tutti i brani (stavolta non sconvolgono con le loro proverbiali strane cover) e soprattutto quasi one-man band d’altri tempi con l’ausilio di un Synclavier in grado di fare quasi tutto da solo, o quasi. D’altronde l’elettronica ha sempre fatto da collante tra i mille stili abbracciati nel corso dagli anni, dove prog inglese, folk americano o musica nera hanno di volta in volta attraversato i loro solchi al servizio di melodie spesso figlie del pop inglese più Beatles-tendente . Non fa eccezione neanche il nuovo prodotto, forse caratterizzato da un tono più crepuscolare e una vena malinconica nei testi, ma che continua a vivere su nobili riferimenti del passato, quasi un incontro tra Can e Bauhaus avvenuto in terra di Canterbury sotto lo sguardo di Robert Wyatt. La partenza però è pure-pop con Gelid Ascent e soprattutto con la balzellante Dour Percentage, giocata su un falsetto da disco-dance che diverte e la rende decisamente radiofonica. I riferimenti sono i più disparati, dal Syd Barrett evocato da Malefic Dowery (caratterizzata dal flauto di Zac Colwell) a sicuramente il Sufjans Stevens più recente e innamorato dell’elettronica (Wintered Debts). Dopo una prima parte dedicata al lato più pop e immediato della sua musica, il secondo lato si spende in quattro lunghe composizioni che, tra ripartenze e momenti sperimentali, rappresentano il corpo insieme più affascinate e più ostico del disco. Come al solito l’album sta già dividendo gli ascoltatori, con agli estremi  gli scettici che vedono più confusione che sostanza nelle opere di Barnes e chi invece lo considera uno dei più imprevedibili geni dei confusi anni 2000 della musica rock. La verità come al solito potrebbe stare nel mezzo, laddove ad una indubbia capacità di sorprendere, si oppone una effettiva difficoltà nel trovare le sue opere avvincenti in maniera unitaria. E non fa eccezione Paralytic Stalks.
Nicola Gervasini

mercoledì 1 agosto 2012

THE HUNGER GAMES: SONGS FROM DISTRICT 12 AND BEYOND


ARTISTI VARI
THE HUNGER GAMES: SONGS FROM DISTRICT 12 AND BEYOND
Universal Republic
***1/2


Ci fa ancora un certo effetto trovare il nome di T-Bone Burnett coinvolto in super produzioni hollywoodiane, ma siamo pur sempre felici che un nome così meritevole sia considerato garanzia di qualità e vendibilità al tempo stesso. The Hunger Games è un film del regista Gary Ross, tratto da un celebre romanzo di fantascienza di Suzanne Collins, già campione d’incassi in USA e in uscita in Italia in questi giorni. Il progetto della colonna sonora è stato affidato proprio a Burnett e ad un altro veterano delle soundtracks come James Newton Howard, che insieme hanno diretto sedici artisti del mondo roots-rock indipendente (come ad esempio i Decemberists o una Neko Case di nuovo a tinte country), folk (Secret Sisters, Low Anthem)  e mainstream come i Maroon 5, che dopo aver partecipato anche al recente tributo a Dylan, sembrano davvero intenzionati a cercare un riconoscimento anche al di fuori del mondo MTV (e stavolta se la cavano pure benino con una Come Away To The Water che trasuda Burnett-sound da tutti i pori). E visto che in genere è naturale che gli artisti non prestino a queste operazioni i loro brani migliori, il risultato può essere considerato più che buono. Il clima generale è comunque rilassato e decisamente folk-oriented, a partire dall’ipnotico tema centrale del film affidato agli Arcade Fire (Abraham’s Daughter), con alcune eccezioni come l’hard/hip hop offerto dal rapper Kid Cudi, un Glen Hansard insolitamente elettrico e sopra le righe con Take The Heartland, (forse uno dei pochi brani che fa storcere leggermente il naso della raccolta, insieme all’unico non prodotto da Burnett, la fin troppo poppettara Eyes Open affidata a Taylor Swift). Le sorprese arrivano dalle reginette del country coinvolte, con la stessa Taylor Swift che riscatta il brutto brano di cui sopra con il convincente incontro con il duo folk dei Civil Wars (Safe & Sound, addirittura scelto come singolo promozionale per l’album), che a loro volta ben impressionano con Kingdom Come, mentre anche la bionda Miranda Lambert tira fuori la passione giusta per la sua Run Daddy Run. Bella scoperta anche Dark Days del gruppo bluegrass Punch Brothers (molto stile Low Anthem), mentre i Decemberists di One Engine persistono nella loro ritorno al roots-rock più classico e i Carolina Chocolate Drops si esibiscono in uno dei loro tipici finti-traditional a cappella (Daughter's Lament). Se la cava bene anche la giovanissima stellina del folk-pop Jayme Dee con la tenue Rules, confermando come la mano del regista Burnett è ormai in grado di far fare bella figura a chiunque. A riprova dunque che il suo marchio dia ormai più garanzie di un bollino D.O.C. posto su una bottiglia di vino, a questo punto potremo goderci un blockbuster all’americana senza doverci troppo tappare le orecchie, e davvero non è poco.
Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...