lunedì 6 agosto 2012

OF MONTREAL...


OF MONTREAL
PARALYTIC STALKS
Polyvnyl Rec.
***

“Di Montreal” era solo la ragazza che ispirò lo strano nome della band, ma loro sono di Athens, la città che i R.E.M. elessero anni fa a capitale del rock alternativo (prima di loro in città si viveva ancora sul mito dei Troggs). Da sempre sinonimo di incatalogabilità, la musica degli Of Montreal colleziona complimenti del mondo dell’indie- rock che conta fin dal 1997, anno del loro esordio discografico.  Paralytic Stalks è il loro dodicesimo album, o il “suo” bisognerebbe cominciare a dire, visto che sempre più il timone artistico della sigla dipende dal solo Kevin Barnes, autore di tutti i brani (stavolta non sconvolgono con le loro proverbiali strane cover) e soprattutto quasi one-man band d’altri tempi con l’ausilio di un Synclavier in grado di fare quasi tutto da solo, o quasi. D’altronde l’elettronica ha sempre fatto da collante tra i mille stili abbracciati nel corso dagli anni, dove prog inglese, folk americano o musica nera hanno di volta in volta attraversato i loro solchi al servizio di melodie spesso figlie del pop inglese più Beatles-tendente . Non fa eccezione neanche il nuovo prodotto, forse caratterizzato da un tono più crepuscolare e una vena malinconica nei testi, ma che continua a vivere su nobili riferimenti del passato, quasi un incontro tra Can e Bauhaus avvenuto in terra di Canterbury sotto lo sguardo di Robert Wyatt. La partenza però è pure-pop con Gelid Ascent e soprattutto con la balzellante Dour Percentage, giocata su un falsetto da disco-dance che diverte e la rende decisamente radiofonica. I riferimenti sono i più disparati, dal Syd Barrett evocato da Malefic Dowery (caratterizzata dal flauto di Zac Colwell) a sicuramente il Sufjans Stevens più recente e innamorato dell’elettronica (Wintered Debts). Dopo una prima parte dedicata al lato più pop e immediato della sua musica, il secondo lato si spende in quattro lunghe composizioni che, tra ripartenze e momenti sperimentali, rappresentano il corpo insieme più affascinate e più ostico del disco. Come al solito l’album sta già dividendo gli ascoltatori, con agli estremi  gli scettici che vedono più confusione che sostanza nelle opere di Barnes e chi invece lo considera uno dei più imprevedibili geni dei confusi anni 2000 della musica rock. La verità come al solito potrebbe stare nel mezzo, laddove ad una indubbia capacità di sorprendere, si oppone una effettiva difficoltà nel trovare le sue opere avvincenti in maniera unitaria. E non fa eccezione Paralytic Stalks.
Nicola Gervasini

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