OF MONTREAL
PARALYTIC STALKS
Polyvnyl Rec.
***
“Di Montreal” era solo
la ragazza che ispirò lo strano nome della band, ma loro sono di Athens, la
città che i R.E.M. elessero anni fa a capitale del rock alternativo (prima di
loro in città si viveva ancora sul mito dei Troggs). Da sempre sinonimo di
incatalogabilità, la musica degli Of
Montreal colleziona complimenti del mondo dell’indie- rock che conta fin
dal 1997, anno del loro esordio discografico.
Paralytic Stalks è il loro
dodicesimo album, o il “suo” bisognerebbe cominciare a dire, visto che sempre
più il timone artistico della sigla dipende dal solo Kevin Barnes, autore di tutti i brani (stavolta non sconvolgono con
le loro proverbiali strane cover) e soprattutto quasi one-man band d’altri
tempi con l’ausilio di un Synclavier in grado di fare quasi tutto da solo, o
quasi. D’altronde l’elettronica ha sempre fatto da collante tra i mille stili
abbracciati nel corso dagli anni, dove prog inglese, folk americano o musica
nera hanno di volta in volta attraversato i loro solchi al servizio di melodie
spesso figlie del pop inglese più Beatles-tendente . Non fa eccezione neanche
il nuovo prodotto, forse caratterizzato da un tono più crepuscolare e una vena
malinconica nei testi, ma che continua a vivere su nobili riferimenti del
passato, quasi un incontro tra Can e Bauhaus avvenuto in terra di Canterbury
sotto lo sguardo di Robert Wyatt. La partenza però è pure-pop con Gelid Ascent e soprattutto con la
balzellante Dour Percentage, giocata
su un falsetto da disco-dance che diverte e la rende decisamente radiofonica. I
riferimenti sono i più disparati, dal Syd Barrett evocato da Malefic Dowery (caratterizzata dal
flauto di Zac Colwell) a sicuramente
il Sufjans Stevens più recente e innamorato dell’elettronica (Wintered Debts). Dopo una prima parte
dedicata al lato più pop e immediato della sua musica, il secondo lato si
spende in quattro lunghe composizioni che, tra ripartenze e momenti
sperimentali, rappresentano il corpo insieme più affascinate e più ostico del disco.
Come al solito l’album sta già dividendo gli ascoltatori, con agli
estremi gli scettici che vedono più
confusione che sostanza nelle opere di Barnes e chi invece lo considera uno dei
più imprevedibili geni dei confusi anni 2000 della musica rock. La verità come
al solito potrebbe stare nel mezzo, laddove ad una indubbia capacità di
sorprendere, si oppone una effettiva difficoltà nel trovare le sue opere
avvincenti in maniera unitaria. E non fa eccezione Paralytic Stalks.
Nicola Gervasini
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