venerdì 29 gennaio 2016

AMOS LEE

AMOS LEE
LIVE AT THE RED ROCKS
ATO Records
***1/2
Non c’è niente di meglio di un live album per celebrare lo zenith di una carriera. Era una regola d’oro negli anni settanta, non lo è più in questi tempi di disordinato e anarchico mercato discografico, ma Amos Lee è da sempre uno che fa le cose con tradizionale regolarità. Una carriera la sua iniziata tra i favori della critica americana per una serie di album eleganti e formalmente ineccepibili come Supply And Demand del 2006 e Last Days On The Lodge del 2008, un primo periodo, sospeso tra il più rigido Nashville-sound in tema di songwriters e l’influenza del miglior James Taylor, che fu immortalato nell’elegante dvd Live From Austin, TX alla fine del 2008. Poi però, un po’ a sorpresa, Amos ha improvvisamente fatto il salto di qualità. A partire dallo straordinario Mission Bell del 2011, e bissando con l’altrettanto ottimo Mountains Of Sorrow, Rivers Of Song del 2013, la musica di Lee è cresciuta di spessore e si è colorata di elementi gospel, rock, persino indie-rock, diventando forse il miglior erede della composta lezione di Lyle Lovett. Live At Red Rocks arriva quindi a celebrare un artista nel pieno del suo salto di qualità, e ci rivela un performer ben più dinamico e eclettico del compassato e, in fin dei conti, noioso cantautore degli esordi. E grande aiuto lo da la Colorado Symphony Orchestra, intera sezione d’archi che regala a brani di per sé già ottimi come Windows Are Rolled Down, Violin o Colors un sound completamente nuovo. I concerti con orchestra sono sempre a rischio di kitsch o inutile magniloquenza, ma il repertorio di Lee vola da sempre basso sulle corde delle emozioni meno estreme, per cui il mix si rivela decisamente riuscito, con l’apoteosi soul di Jesus, il baldanzoso country-rock alla Jim Croce di Tricksters, Hucksters and Scamps, o la sempre meravigliosa El Camino. E ancora in scaletta passano Keep It Loose, Keep It Tight, Flower, Won’t Let Me Go, Arms Of A Woman, Sweet Pea e una gran bella versione di Street Corner Preacher. E visto che Lee è in vena di scherzi, nel finale lascia spazio all’orchestra, che si prodiga in una versione del tema del serial Game Of Thrones che, c’entrerà poco con il contesto, ma dimostra quanto la mente di Amos Lee si sia aperta e sia ancora pronta a generare grande musica d’autore. Non sarà un titolo fondamentale della sua discografia, ma Live At The Red Rocks conferma la statura di primo livello di un autore che ha saputo prendersi il giusto tempo per crescere e maturare. Proprio come si faceva ai vecchi tempi.


Nicola Gervasini

mercoledì 27 gennaio 2016

JOSE' GONZALEZ LIVE

Foto: Rodolfo Sassano

In Concert

José Gonzalez live a Milano, 18/11/2015

Non è certo uno che si affanna lo svedese (ma di evidenti origini argentine) José Gonzalez. Tre album in tredici anni, un grande breakthrough record nel 2003 (Veneer, arrivò nella top ten britannica), un seguito atteso un po’ troppo lungo (In Our Nature del 2007), e solo quest’anno il terzo lavoro con il sempre notevole Vestiges & Claws. In mezzo comunque l’esperienza con i Junip, ma in ogni caso il timido ragazzo, visto il 18 novembre sul palco dell’Alcatraz di Milano, ha tutta l’aria di non avere nessuna fretta nell’inseguire il successo.
Eppure ancora oggi è riuscito a riempire un locale di media grandezza con uno spettacolo di indie-folk che gioca molto più con i silenzi che con i ritmi. Concerto breve (un’ora e un quarto), aperto prima dai funambolici ritmi dei Cristobal and The Sea, strano combo dedito ad un suggestivo mix di musica brasiliana e muro del suono da shoegaze anni novanta (loro lo definiscono “tropicalia pop”), che hanno comunque riscaldato bene l’ambiente anche grazie alla magnetica presenza della vocalist e flautistaLeila Seguin.
Gonzalez invece si è presentato con una bizzarra formazione con due percussionisti, due chitarre acustiche e un sintetizzatore, strumentazione che ovviamente non ha portato ritmo, ma tanta suggestione e trame armoniche per nulla banali. Non è neanche uno che ama scervellarsi sulle scalette, se è vero che il menu è stato pressoché lo stesso delle più recenti date europee, aperto con una Crossessuonata in solitaria, unico brano, insieme all’acclamatissima Heartbeats (una cover dei Knife), proveniente dal suo disco di esordio. Non rivisitato troppo neanche In Our Nature, da cui sono state ripescate la coinvolgente Killing For Love (uno degli highlight della serata), la Down the Line con cui ha chiuso il concerto e l’immancabile cover di Teardrops dei Massive Attack.
Le cover hanno avuto il loro spazio dunque, a partire da una ovviamente irriconoscibile Hand On Your Heart, pop song della Kylie Minogue anni ottanta, e da This Is How We Walk On The Moon di Arthur Russell, mentre Barbarossa, altro interessante artista svedese qui in veste di vocalist e tastierista (da recuperare il suo album Imager), ha avuto il suo spazio con la stupenda Home. Per il resto i brani tratti dall’ultimo album la fanno da padrone, con particolar menzione per la complessa What Will che ha scaldato la serata, Leaf Of e la più baldanzosa Let It Carry You. Gonzalez parla poco e il clima resta malinconico anche quando affronta un brano tutto sommato gioioso come Walking Lightly, pescato dal songbook dei Junip (come anche Line Of Fire).
Nel complesso un concerto molto elegante, anche se Gonzalez pare non lasciarsi mai andare, le versioni dei brani sono sempre molto poco elaborate rispetto a quelle registrate in studio, e solo ai percussionisti sembra dato permesso ogni tanto di improvvisare qualche passaggio. Forse una questione di stile o anche comunque un suo evidente limite espressivo (alla fine ha un unico registro), ma dal palco dell’Alcatraz ha comunque dimostrato il buon spessore della sua carriera.

lunedì 25 gennaio 2016

CITY AND COLOUR

CITY AND COLOUR
IF I SHOULD GO BEFORE YOU
Dine Alone/ Caroline
***1/2

Ogni tanto serve andare a rileggersi le vecchie recensioni, un po’ per la sana attività di autocritica del critico, un po’ perché poi serve a capire cosa sta cambiando nel modo in cui valutiamo la musica. Mi era già capitato di parlare di City And Colour nel 2008 in occasione del suo secondo album Bring Me Your Love, e ai tempi, fin dalle prime righe, non celai un certo sarcasmo nel evidenziare come Dallas Taylor, fino ad allora noto nel mondo del cosiddetto post-hardcore come leader della band Alexisonfire, avesse semplicemente tentato una carriera solista seguendo la moda indie che voleva canzoni tristi e acustiche, barba lunga, nome di un gruppo che in verità rappresenta una persona sola…insomma un clone di Iron&Wine. Il disco non era malaccio, ma sembrava destinato a perdersi nel mucchio, anche se poi le incoraggianti vendite dei successivi capitoli (Little Hell del 2011 e The Hurry and the Harm  del 2013) soprattutto in Canada dove ha largo seguito, gli hanno ragione. Ma ancora più convincente è la maturazione, il deciso cambio di rotta, o finalmente una certa crescita in personalità, evidenziato dal nuovo lavoro, If I Should Go Before You. Dimenticate l’indie-folker chino sulla chitarra acustica e sui propri dolori, il nuovo album di City And Colour è un disco pieno, ottimamente arrangiato, di un indie-rock che si, ruba un po’ ovunque (Okkervil River?, Jonathan Wilson? Persino primi Radiohead se vogliamo…e me ne vengono in mente altri cento forse), ma che trova la grazia di un pugno di canzoni davvero ben scritte. Registrato a Nashville (e si sente, nelle elettriche rootsy e nell’organo hammond che fa da sfondo a molte canzoni), il disco mostra un insospettabile verve da classic-rocker, con finezze come l’incedere decisamente black di Killing Time, straordinario brano sorretto da ritmica pulsante e wurlitzer a commento. La partenza con i 9 minuti e passa (e non annoiano…) di Woman poi è davvero da applausi, brano strascicato e in lento crescendo che prepara ad una Northern Blues che quasi sa di versione freak di Tom Petty e una bella e delicata Mizzy C. E andando avanti sempre più il rock americano entra nelle vene, con una Runaway che potrebbe davvero appartenere a qualsiasi cantautore di Nashville, una Wasted Love che sa di band di Americana, o Lover Come Back che invade il campo di un Amos Lee, per dirne uno a caso. Si chiude con la folkie Map Of The World e la maestosa Friends, prima di una Blood che recupera il tono un po’ melodrammatico della partenza. Non sa di promozione al rango di autore di punta, quando solo di quella volta che anche un artista minore azzecca il disco giusto. Diamogli perlomeno questo merito e soddisfazione.

Nicola Gervasini

venerdì 22 gennaio 2016

OF MONTREAL

OF MONTREAL
Snare Lustrous Doomings
Polyvinyl
***1/2
Per parlare degli Of Montreal serve ricordare cosa fosse il gruppo Elephant 6, una sorta di collettivo di musicisti nato a Denver a metà degli anni 90, da cui uscirono sei band considerate seminali per tutto quello che sarà l’indie-rock da lì in poi. Se i Neutral Milk Hotel restano forse i più mitizzati e influenti, loro restano tra i pochi a non aver mai avuto pause e ripensamenti nel corso di ormai quasi 20 anni di carriera. Non abbiamo ancora fatto a tempo ad assimilare il loro recente tredicesimo album Aureate Gloom che anche alla creatura di Kevin Barnes è venuta una certa urgenza di auto-celebrazione. Snare Lustrous Doomings è infatti un corposo doppio cd live, per la verità già circolato qualche mese fa in occasione di un Record Store Days in una colorata versione in vinile (solo 3000 copie esistenti), ma ora finalmente pubblicato ufficialmente anche in cd. Nuovamente orfani di Bryan Poole, altro storico deus ex machina della band che ha mollato la nave nel 2013, la line-up della sigla, da sempre alquanto instabile, viene colta in una formazione a quintetto che oltre al leader Barnes conta i recenti acquisti Bob Parins al basso, Bennet Lewis alla chitarra (che ha un tocco decisamente più rock dei suoi predecessori) e JoJo Glydelwell alle tastiere. In questo senso il batterista Clayton Rychlik, imbarcato nel 2010, figura essere il membro più anziano, a parte Barnes che sta al timone fin dal 1996. Questo per dire che da un certo punto di vista l’operazione suona come se i Rolling Stones avessero fatto il primo album live in carriera con solo Mick Jagger e quattro session men, e spiace quindi non poter presentare il disco come il vero testamento live del gruppo. Dall’altra parte però l’intelligenza di Barnes è quella di aver prodotto una performance decisamente brillante, con numerosi ripescaggi dal passato e un clima generale di fun-pop sixties-oriented, mixato con le mille influenze (A Sentence Of Sorts In Kongsvinger ringrazia sentitamente i Talking Heads ad esempio) che da sempre animano la musica della band. Come dire: “forse abbiamo terminato la corsa come nome rivoluzionario, ma possiamo ancora divertirci parecchio!”. Scaletta lunga (19 brani), corredata da una succosa cover di Time Will Show the Wiser, brano pescato dal primo album dei Fairport Convention, qui interpretato dall’ospite Nedelle Torrisi. Non abbiamo spazio per i paragoni con le versioni passate, ma sicuramente qualche fans potrebbe lamentarsi per una certa mancanza di eccentricità e una fin troppa professionalità nel rivisitare il loro songbook, come se Barnes avesse deciso che è ora di concedersi per lo show e di insegnare qualcosa alle nuove generazioni. Nulla di male, perché seppur lungo, il disco non annoia e in parte ripaga della freddezza con cui è stato accolto il recente album Aureate Gloom. E come introduzione per i neofiti per la band potrebbe anche essere consigliato.

Nicola Gervasini

mercoledì 20 gennaio 2016

IRON MAIDEN

Quando si parla degli Iron Maiden viene subito la tentazione di parlare di “ritorno”, nonostante la storica sigla dell’heavy metal britannico non abbia mai ufficialmente mollato il colpo fin dall’esordio del 1980. Certo, il ritorno di Bruce Dickinson alla voce nel 2000 ha avuto lo stesso effetto di rinascita che ebbe il ritorno a casa di Ian Gillan nei Deep Purple nel 1984: entrambi arrivati per secondi nella band, eppure entrambi indiscutibilmente a capo della formazione storica per antonomasia delle rispettive case. Anche i loro fans non hanno mai desistito e perso fedeltà, persino nei difficili anni 90, e pure ora che i capelli da sbattere non ci sono più, e le pance impediscono ai vecchi pantaloni in pelle di chiudersi bene. Anzi, il mito Iron Maiden continua a mietere nuovi adepti e curiosi cultori anche tra le nuove generazioni, pronte a scuotere la testa con tanto di mano a corna di ordinanza al solo attacco di Run To The Hills. Book Of Souls (Parlophone/BMG) sa però di disco di nuova maturità, perché che una band giunta al sedicesimo album riesca a far reggere ben 92 minuti di musica, in un epoca in cui anche 45 sanno di album troppo lungo, pare davvero un traguardo ragguardevole. La noia c’è solo per chi non è già avvezzo alla loro filosofia, ma Dickinson e soci sembrano voler ribadire che non c’è nulla da cambiare nella loro musica, è sempre andata bene così com’è. Anzi, ora possono anche dilatarla fino ai diciotto minuti di Empire Of The Clouds senza timore di tediare nessuno dei loro cultori. E senza dubbio la chitarra di Adrian Smith e la voce di un Dickinson reduce da due tumori suonano ancora potenti, e basta anche solo azzeccare il riff giusto (il singolo Speed of Light ce l’ha eccome) per ritrovare il sapore di un tempo. Ci sarebbe da contestargli l’aver definitivamente rinunciato a una qualsivoglia tentativo di variazione stilistica, nonostante i lunghi timing delle canzoni possano far pensare ad un cambio di rotta più metal-prog, ma si ha l’impressione di rovinare una festa anche solo a pensarlo, perché qui per un ora e mezza è palpabile l’unica vera ragione per cui loro sono, con gli Slayer, l’istituzione del metal anni 80 più credibile oggigiorno.

Nicola Gervasini

POP STAPLES


 Pop Staples Don't Lose This [Anti/ Self  2015]
anti.com/artists/pops-staplest

 File Under: The Soul of Jeff Tweedy

di Nicola Gervasini (09/03/2015)
Se fosse un disco veramente nuovo, Don't Lose This sarebbe solo l'ultima delle riesumazioni di star del soul storico ad opera di star della roots-music moderna. Ma qui ad essere riesumato dalla benemerita Anti è un album che, se fosse uscito ai tempi della sua effettiva prima registrazione (il 1999), avrebbe scippato al duo Solomon Burke/Joe Henry il merito di aver lanciato la moda delle collaborazioni vecchio/giovane in campo soul (e non solo…). Ma non sarebbe stato in ogni caso così, perché c'è il trucco… Facciamo un passo indietro: Pops Staples è morto nel 2000 dopo una vita di grandi successi e irraggiungibili capolavori con i suoi Staples Singers (se non avete in casa perlomeno Be Altitude: Respect Yourself del 1972 vergognatevi…) e battaglie sociali e antirazziste. Prima di morire registrò un ultimo disco, insieme alla fedele figlia Mavis, per solo chitarra e voci, ma nessuno pensò a pubblicarlo.

La tenace Mavis ha parlato dell'album al suo produttore del momento, Jeff Tweedy dei Wilco, il quale ha ripreso i nastri e ha registrato ex-novo le parti di basso e qualche chitarra. E, visto che era intento a registrare il suo album solista con il figlio Spencer, ha affidato al pargolo le poche parti di batteria presenti. Il risultato è in tutto per tutto simile ad album come One True Vine di Mavis Staples, ma il fatto che questa volta il tutto sia frutto di un abile mix di registrazioni fatte a distanza di 15 anni impone una riflessione: da una parte dimostra come 15 anni di soul-revival (da parte dei vecchi, più o meno tutti tornati in auge a turno) e new-soul (tante giovani leve che suonano esattamente come i vecchi) non hanno cambiato di una virgola la grammatica del genere, dall'altra esalta ancora una volta l'essenza di questa musica: basta una voce, una grande interpretazione, molta anima e, se possibile, anche qualche buona canzone (le dieci scelte in questo caso lo sono), e si può fare un ottimo soul-record.

E volendo anche senza bisogno di grandi geni che ci mettano del loro, perché di fatto anche in questo caso Tweedy si limita a seguire gli schemi e a dare un contorno senza stravolgere troppo gli arrangiamenti originali. Insomma, Dont' Lose This, così come ci arriva oggi, nel 1999 sarebbe stato un miracolo, nel 2015 suona come un disco un po' tardivo, già sentito. Ma chi se ne frega in fondo, perché Tweedy o no, è un'opera di soul, cantata da un vecchio un po' "sfiatato" di voce ma non di sentimenti, e da una vocalist che la voce invece non l'ha persa mai. E con cover intelligenti come la dylaniana Gotta Serve Somebody o il traditional Will The Circle Be Unbroken che chiudono alla grande il disco, ma anche tenui soul-ballads comeSweet Home e Friendship, e una sentita versione solo voce e chitarra di Nobody's Fault But Mine di Blind Willie Johnson. Probabilmente lo stesso Pops non si sarebbe mai immaginato che un giorno queste registrazioni sarebbero state addirittura "trendy", e forse le avremmo apprezzate anche senza la post-produzione di Tweedy, nonostante in alcuni casi l'aggiunta di una band pare davvero dare quel qualcosa in più (la baldanzosa The Lady's Letter).

Non è mai troppo tardi per un bel disco come questo, nonostante abbia già fallito l'appuntamento con la storia.

lunedì 18 gennaio 2016

JULIAN COPE


Julian Cope World Shut Your Mouth (deluxe ed. 2 cd)
Fried 
(deluxe ed. 2 cd)
[Mercury/ Caroline International 2015]
 

www.headheritage.co.uk
 File Under: underground milestones 

di Nicola Gervasini (08/10/2015)
Nel 1984 Julian Cope era solo uno dei tanti leader di band dissolte dell'era post punk/new wave. Sebbene i suoi Teardrop Explodes non siano stati dei campioni in termini di vendite (ma l'album Kilimanjaro e il singolo Reward ebbero comunque buon successo), la Mercury fece carte false per accaparrarsi i suoi primi album solisti, con la speranza di riuscire a creare una nuova star aggiornata ai nuovi suoni "plasticosi" di moda nella metà degli anni ottanta. Evidentemente non si erano resi bene conto che non avevano a che fare con un novello Billy Idol, pronto a riadattarsi ai tempi che correvano senza alcun ritegno, ma con quello che ancora oggi consideriamo tutti come il migliore esempio di un folle, ma encomiabile artista senza compromessi.

Usciti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro nel 1984, World Shut Your Mouth Fried furono un fallimento commerciale clamoroso (il primo arrivò a stento in top 50, il secondo, fatto uscire in fretta proprio per correggere il tiro, toccò l'ottantasettesimo posto nella UK charts e sparì dalle radio subito dopo, lasciando solo il ricordo della sua folle copertina), privi come erano di singoli vendibili a MTV, e soprattutto portatori di un suono perfetto e oggi modernissimo, ma totalmente slegato dal contesto modaiolo dell'epoca. Il produttore di entrambi i dischi era il chitarrista Steve Lovell, oscuro personaggio ai tempi praticamente esordiente (diventerà poi uno dei produttori più usati dai Blur, anche se, inspiegabilmente, nel suo curriculum compare anche la produzione di Touch Me di Samantha Fox, proprio all'indomani della collaborazione con Cope), che subito si evidenziò per il suo tocco totalmente vintage e legato alla psichedelia inglese di marca primi Pink Floyd.

Nonostante l'insuccesso, i dischi non tardarono a diventare dei cult-records, e la loro influenza sul rock underground dei trent'anni successivi non sbiadisce neppure riascoltando le nuove brillanti riedizioni pubblicate dalla Caroline International. World Shut Your Mouth resta un disco ancora legato al mondo Teardrop Explodes (molti dei brani erano nati per la band), sospeso tra un intimismo del tutto fuori moda all'epoca e un rock scarno e figlio di Syd Barrett, mentre Fried è forse la summa di tutto il suo lavoro e della sua filosofia, e anche se forse il suo capolavoro definitivo sarà Peggy's Sucide del 1991, canzoni come Reynard The Fox o Bill Drummond Said già descrivevano perfettamente il folle universo della sua mente. Dopo questi due album Cope proverà a darsi una ripulita nel segno dei tempi con i ben più vendibili Saint Julian (unico suo vero successo commerciale) e My Nation Underground, prima di chiudersi nella bellissima autoproduzione dei sui anni novanta.

Le due riedizioni portano in dote un cd aggiuntivo per ognuna, pieni zeppi di buone chicche come alcune interessanti b-sides (oltre recuperare quelle già uscite nelle ristampe degli anni 90, da segnalare su tutte l'acustica Disaster, la bluesata Mic, Mak, Mok o la divertente 24a Velocity Crescent con le sue tante citazioni dell'era Pysch anni 60), demo di pezzi poi ripresi in dischi successivi (Pulsar), e una lunga serie di immancabili John Peel e BBC Radio One Sessions, come al solito miniere d'oro di nuove convinte versioni suonate in diretta. Tutto materiale di grande interesse storico e ben rimasterizzato, che aggiunge però poi poco a quanto sapevamo già, e cioè che spesso le grandi rivoluzioni nascono silenziosamente nei bassifondi, ma trentuno anni dopo fanno ancora un gran rumore.

venerdì 15 gennaio 2016

JOSH RITTER


 Josh Ritter 
Sermon On the Rocks
[
Pytheas Recordings/Thirty Tigers 
2015]
www.joshritter.com
 File Under: Master League

di Nicola Gervasini (09/11/2015)
Esistono buoni artisti, ed esistono grandi artisti. I primi sono tantissimi, sempre di più, e forse ormai raggiungere un livello base per produrre un disco "piacevole" o "ascoltabile" è qualcosa davvero alla portata di molti. I "grandi" artisti però ci sono davvero, e ci sono ancora. Sono quelli che alla normalità di una rock/folk/indie-song che sia, aggiungono quel qualcosa che è solo loro, sia questo un marchio di fabbrica inconfondibile, o il semplice peso della propria personalità. Sono gli unici ancora in grado di sorprenderci insomma. Josh Ritter, ad esempio, è da anni che non sbaglia un disco, ma è sempre rimasto un po' sul confine tra l'essere un bravo cantautore o l'essere un caposcuola. Sermon On The Rocks però arriva a dirci che è forse l'ora di promuoverlo a pieni voti alla serie A, non perché sia per forza questo il suo album migliore (la lotta per la palma è davvero feroce), ma se non altro per l'invidiabile continuità a livelli eccelsi, visto che all'alba dell'ottavo album in carriera la sua qualità è ancora in continua crescita, e non è davvero cosa da molti.

Quello che ce lo fa applaudire un po' di più è la larga visione d'insieme che Ritter ha maturato nel corso del tempo, che lo rende uno degli artisti più eclettici e capaci di miscelare diversi elementi, senza mai dare l'idea che stia solo girando alla disperata ricerca di uno stile. E così se Birds On The Meadow potrebbe far pensare ad una svolta modernista con il suo martellante ritmo pop, le chitarre hillbilly e l'incedere da fast-gospel di Young Moses, oltre a far capire da chi hanno imparato a confezionare grandi canzoni gente come Amos Lee e Jonathan Wilson, mettono in evidenza una naturalezza nel cogliere la melodia e il ritmo giusto da artista scafato. Non ci si annoia mai, né quando il suo timido folk degli esordi si ripresenta in unaHenrietta, Indiana che ha il sapore della sua produzione dei primi anni 2000, sia quando confeziona un saltellante quanto irresistibile singolo come Gettin Ready To Get Down, tour de force di parole profuse ad alta velocità tra chitarre caraibiche e batterie pulsanti. E non ha paura neanche di concedersi qualche arrangiamento un po' furbo come Seeing Me 'Round, giri melodici già sentiti in almeno 20 canzoni di Dylan e 1000 di seguaci come Where The Night Goes, ballatine pop-folk alla Lovin Spoonful come Cumberland, insomma tutto l'armamentario base del folksinger moderno.

Ma quando poi arrivano i cinque minuti e passa di Homecoming, emozionante crescendo di suoni, ritmi e melodie, capisci che la maturazione è giunta al massimo. Resta il tempo per un'altra intensa soul ballad (The Stone), il puro roots-rock di A Big Enough Sky, l'esperimento alla Wilco di Lightouse Fire e una My Man on The Horse che potrebbe tranquillamente chiudere un film western di epoca crepuscolare alla Sam Packinpah. Il bello di Ritter è che sembra sempre non fare mai nulla di speciale, eppure ogni volta esci da un suo disco con la voglia di riascoltarlo e di scoprire qualcosa di nuovo. E questa è caratteristica solo dei grandi.


mercoledì 13 gennaio 2016

JOE JACKSON


 Joe Jackson 
Fast Forward
[
earMUSIC 2015]
www.joejackson.com
 File Under: rewind pop

di Nicola Gervasini (24/11/2015)
Nel 1981 la stampa musicale britannica era già in cerca di notizie di prima pagina, e quella di amplificare una frase sfuggita aJoe Jackson in una intervista di presentazione dell'album tutto-jazz Jumpin Jive, sembrò a tutti una buona idea. Per molti Joe Jackson è ancora quello del motto "Il rock è morto", dell'abbandono del pungente pub-rock dei suoi esordi a favore del sofisticato jazz-pop con cui ha creato negli anni ottanta tanti grandi dischi. La frase era tornata in auge negli articoli su di lui degli anni novanta, quando il nostro ha poi tentato (senza successo) di passare ad una sorta di pop sinfonico, quasi a voler dire che non solo il rock era morto, ma anche il jazz e il pop non stavano poi così bene.

Ma siccome si nasce incendiari, ma si muore pompieri, il Jackson maturo e ormai fuori dallo star-system degli anni 2000 è un musicista che è venuto a patti con tutte le sue anime, producendo dischi di pop anni ottanta (Night and Day II del 2000), un ritorno al pub-rock (Volume 4 del 2003), un altro tributo al jazz (The Duke del 2012) ne infine Rain del 2008, il suo disco migliore di questa fase, in quanto semplicemente un disco di buone canzoni alla Joe Jackson. Fast Forwardriparte da lì, da questo suo nuovo stile seccamente pop, diretto all'essenziale, che fa tesoro di tutto il suo più tipico armamentario senza esibire proclami concettuali da guru musicale. Potrebbe essere il suo Big World degli anni duemila questo progetto, nato come viaggio in quattro tappe con differenti sessioni di registrazioni effettuate a New York (dove troviamo la chitarra di Bill Frisell in session), Berlino (qui con Greg Cohen e la chitarra di Dirk Berger), Amsterdam (con una intera orchestra) e l'interessante collaborazione a New Orleans con la funky-band dei Galactic.

Più di un ora di musica, e due cover che riassumono tutte le sue origini, una See No Evil dei Television che lo riconcilia nuovamente con il rock dei suoi esordi, e una Good Bye Jonny che viene dal mondo del cabaret berlinese. Per il resto ci si perde un po' in un mare di materiale che va dall'ottimo (la title-track, ma soprattutto la notevole Junkie Diva o il grazioso singolo A Little Smile), alla normale amministrazione di un artista conscio di rivestire ormai un ruolo marginale, ma in fondo ancora fiero della sua musica. Forse Rain aveva qualche freccia in più al suo arco, e la lunghezza del progetto rende un po' dispersivo il risultato, ma Fast Forward ci conferma comunque che Joe Jackson ha smesso di cercare la formula più intelligente per fare musica, e oggi è forse più capace di un tempo di lasciarsi andare alle emozioni e al puro piacere di suonare del grande brit-pop. Il che non gli garantisce più sensazionali titoli sui giornali, ma un semplice seguito di fans fedeli e appassionati di buona musica che per dischi del genere continueranno a portagli un gran rispetto.


lunedì 11 gennaio 2016

DWIGHT YOAKAM


 Dwight Yoakam 
Second Hand Heart
[
Warner Bros. 
2015]
www.dwightyoakam.com
 File Under: Cow-punk resurrection

di Nicola Gervasini (02/05/2015)
Ha ormai ritmi da scafato veterano che non deve più dimostrare nulla a nessuno la produzione discografica di Dwight Yoakam, incontrastato re della country music che conta in termini qualitativi (sebbene anche come vendite il nostro spesso compete con le big star più commerciali di Nashville, come ad esempio quell'Eric Church che lui stesso ha appena seguito come spalla in un lungo tour). Second Hand Heart arriva tre anni dopo 3 Pears, che già chiudeva un lunghissimo periodo di silenzio, portandoci quaranta minuti di puro Yoakam-sound, dopo le piccole deviazioni pop imposte dalla produzione di Beck nel lavoro precedente. Qui invece è impossibile ravvisare grandi novità nel sound , forse solo più rock-oriented del solito, ma senza dubbio siamo di fronte ad uno degli episodi più freschi, energici e pienamente riusciti della sua carriera.

Yoakam non lesina sudore, sia quando lascia le chitarre a briglia sciolta per esaltare l'impatto di un brano perfetto nella sua semplicità come She (nulla a che vedere con l'omonima canzone di Gram Parsons), sia quando anche in occasione di ballate romantiche come la splendida Dreams Of Clay tiene comunque alto ritmo e livello dei suoni. E' un disco nato per la radio e per essere ascoltato in macchina, con chitarre ben marcate a coprire il rumore del motore, e il consueto mix di romanticismo e passione da country-outlaw. Nelle interviste di presentazione all'album lo stesso Yoakam ha voluto rimarcare come il disco vuole essere un omaggio al cow-punk degli anni 80, vera e propria ispirazione per i suoi esordi, e cita il "senso di immediatezza" di band come Jason & The Scorchers, Lone Justice e Rank & File per far capire da dove arriva il wall of guitars della tilte-track ad esempio (e avrei aggiunto anche i tardi X con Dave Alvin nel motore come punto di riferimento) o della micidiale serie rock and roll formata da Man Of Constant SorrowLiar e The Big Time.

Anche sul piano della scrittura il disco sembra avere una marcia in più del suo predecessore (...ma non si ricordano dischi brutti nella sua carriera), fin dalla programmatica apertura di Another World o anche nel middle-tempo di Believe. Dwight non è mai stato un autore particolarmente prolifico, e anche in questo caso scrive solo otto brani, ricorrendo a due cover che paiono tuttavia ottimamente integrate nel contesto, sia la splendida velocissima resa del traditional Man Of Constant Sorrow(mille versioni si potrebbero citare di questo brano, fin da quella presente nell'esordio di Bob Dylan), oppure V's Of Birds, opportuna chiusura sentimentale scritta dal suo fido chitarrista Anthony Crawford. La produzione è scintillante ed è affidata al vecchio Tom Lord-Alge (la lista delle sue collaborazioni sarebbe troppo lunga anche per cercarne un significativo sunto), la band gira sempre alla perfezione, e non c'è altro da dire: finiti i 40 minuti avrete voglia di ripartire subito da capo. Si può forse chiedere di più ad un country-record nel 2015?

giovedì 7 gennaio 2016

JJ GREY & MOFRO


 JJ Grey & Mofro
Ol' Glory 
[
Provogue 
2015]
www.jjgrey.com

 File Under: roots rock got soul

di Nicola Gervasini (02/03/2015)
Non sto neanche più ad annoiarvi a spiegare chi sono JJ Grey & Mofro. Se siete degli habitué delle nostre pagine è da tempo che avete familiarizzato con questa band, altrimenti consultate pure il nostro archivio, anche a caso. Non c'è album sfornato da questi simpaticoni di Jacksonville che non valga la pena recuperare: persino quelli minori come Georgia Warhorse hanno comunque quei due o tre pezzi memorabili, che giustificano il tempo perso all'ascolto. Memorabili per noi ovviamente, e questo è un discorso che abbiamo già fatto: loro non sono di nicchia, loro sono LA nicchia, la roots-music per soli roots-musicofili a largo raggio, dove le radici sono anche quelle della black music che pervade prepotentemente la loro musica.

Potremmo definirli una Band (quelli con la B maiuscola) moderna immersa nei sapori Stax, una ex jam-band nata per emulare la Dave Matthews Band che si è dimenticata la jam a favore dell'emozione, del ritmo funky. Non c'è niente da fare, ogni loro uscita è una festa, e quindi anche questo Ol'Glory, disco che non si discosta dai precedenti se non per un ulteriore spostamento del baricentro verso la soul-ballad, evidenziato dall' 1-2-3 iniziale di Everything Is A SongThe Island e Every Minute con il suo finale di slide (gentilmente offerta da Derek Trucks) che avrebbe avuto la benedizione di un qualsiasi emulo di Otis Redding. Facile dargli dei retrogradi, ma intanto scrivetela voi se ci riuscite una canzone come A Night To Remember in pieno 2015 senza dare l'impressione di star solo copiando dai padri e padroni della soul music, e persino quando ci si dice che "sì, questa la si è già sentita" (Light a Candle ad esempio), non si ha mai la sensazione che ci stiano in qualche modo fregando. Sono cuore ma anche ragione i Mofro di JJ Grey, attenzione all'arrangiamento, studio del suono adatto (fiati + organo hammond + chitarre slide, connubio southern-soul collaudato ma sempre efficace).

Il disco ha una prima parte molto lenta e riflessiva, ed è solo con la funky Turn Loose e la sua tastiera in clima Stevie Wonder che si comincia a battere anche le mani per tenere il ritmo, ma meglio così, Ol'Glory è un disco in crescendo. Quasi ogni singolo brano è costruito per partire lento e finire in apoteosi (Home in The SkyHold On Tight), trucco scenico vecchio come il rock che ha sempre la sua efficacia dal vivo. La title-track è poi lo zenith di ritmo, sudore, James Brown e colpi spettacolari: basta quella a consigliare l'acquisto anche di questo nuovo album. Non chiedetegli di farsi portabandiera di chissà quale movimento: i JJ Grey & mofro hanno ormai un consolidato quanto invariabile seguito da anni, e non hanno scritto e mai scriveranno pagine importanti di storia del rock. Ma continuano a scrivere grande rock, e nel 2015 forse solo questo può ancora contare.


lunedì 4 gennaio 2016

GLEN HANSARD


 Glen Hansard 
Didn't He Ramble
[
Anti/ Self 
2015]
glenhansardmusic.com
 File Under: The Soul of Irish Music

di Nicola Gervasini (20/10/2015)
Sebbene sia sulle scene fin dai primissimi anni 90, in qualche modo viene da pensare a Glen Hansard come uno dei nomi più importanti del folk intimista e indie-oriented di questi ultimi anni. La sua carriera con i Frames andrebbe forse riscoperta, ma è indubbio che il salto di qualità lo abbia fatto solo nel 2006 col folgorante sodalizio insieme a Marketa Irgolva negli Swell Season, avventura chiusa solo dopo quattro anni con due album e una colonna sonora di un riuscito film all'attivo. E così l'esordio da solista è arrivato solo tre anni fa, con il validissimo Rhythm And Repose, disco in cui Hansard faceva un riassunto stilistico di tutta la sua carriera, dimostrando una maturità nel produrre folksongs intime e toccanti da vero fuoriclasse.

Didn't He Ramble arriva tre anni dopo, e se da una parte lo conferma come autore importante e artista di punta della musica irlandese, comincia però a far capire che la sua fase di decollo è pressoché finita, e siamo giunti alla velocità di crociera. Il menu non cambia rispetto all'album precedente: ballate indie da ascoltare in silenzio (l'intensa Wedding Ring), il grande amore per la musica d'autore americana (ascoltate Winning Streak e vi sembrerà di essere nel pieno di un disco di Amos Lee), il soul serpeggiante che non manca mai in una qualsiasi produzione di marca Irish (il crescendo gospel di Her Mercy), le ballate tradizionali della sua verde terra (McCormack's Wall). E si riparte sullo stesso tema nella seconda parte: ancora tradizione con il duello tra violini e fiati di Lowly Diserter, una lenta Paying My Way che promette - ma non mantiene troppo - intense emozioni, mentre è solo con My Little Ruin che ritorna il tono un po' tragico dell'era Swell Season, con un "wall of sound" finale da brividi in cui manca soltanto l'intervento della Irgolva. Restano ancora una leziosa Just to be the One che fa il verso a certi soft-folk-pop da primi anni zero alla Kings Of Convenience, e un finale solo voce e chitarra per la riflessiva Stay The Road.

Resta da dire del brano iniziale, una Grace Beneath The Pines che ha un titolo che più vanmorrisoniano non si può, e che svela subito dove il nostro vuole arrivare: diventare il Van Morrison degli anni futuri, il nuovo punto di riferimento per qualsiasi giovane irlandese che voglia imbracciare una chitarra acustica. Fatte le debite distanze (ma le farebbe anche lui), Didn't He Ramble è in fondo il disco che oggi vorremmo sentire anche dal vecchio leone di Belfast: classico, quadrato, ma ancora vagamente curioso e pieno di anima. Per contro, comincia a serpeggiare anche tra le righe di Hansard un certo appagamento che ancora non fa scattare allarmi rossi, ma che potrebbe diventare un problema nei prossimi capitoli. Sperando sia solo una vaga sensazione, godiamoci comunque il presente di un grande artista.


BILL RYDER-JONES

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