CITY AND COLOUR
IF I SHOULD GO BEFORE YOU
Dine Alone/ Caroline
***1/2
Ogni tanto serve andare a rileggersi le vecchie recensioni,
un po’ per la sana attività di autocritica del critico, un po’ perché poi serve
a capire cosa sta cambiando nel modo in cui valutiamo la musica. Mi era già
capitato di parlare di City And Colour
nel 2008 in occasione del suo secondo album Bring Me Your Love, e ai tempi, fin
dalle prime righe, non celai un certo sarcasmo nel evidenziare come Dallas Taylor, fino ad allora noto nel
mondo del cosiddetto post-hardcore come leader della band Alexisonfire, avesse semplicemente
tentato una carriera solista seguendo la moda indie che voleva canzoni tristi e
acustiche, barba lunga, nome di un gruppo che in verità rappresenta una persona
sola…insomma un clone di Iron&Wine. Il disco non era malaccio, ma sembrava
destinato a perdersi nel mucchio, anche se poi le incoraggianti vendite dei
successivi capitoli (Little Hell del
2011 e The Hurry and the Harm del 2013) soprattutto in Canada dove ha largo
seguito, gli hanno ragione. Ma ancora più convincente è la maturazione, il
deciso cambio di rotta, o finalmente una certa crescita in personalità,
evidenziato dal nuovo lavoro, If I Should Go Before You.
Dimenticate l’indie-folker chino sulla chitarra acustica e sui propri dolori,
il nuovo album di City And Colour è un disco pieno, ottimamente arrangiato, di
un indie-rock che si, ruba un po’ ovunque (Okkervil River?, Jonathan Wilson?
Persino primi Radiohead se vogliamo…e me ne vengono in mente altri cento
forse), ma che trova la grazia di un pugno di canzoni davvero ben scritte.
Registrato a Nashville (e si sente, nelle elettriche rootsy e nell’organo
hammond che fa da sfondo a molte canzoni), il disco mostra un insospettabile
verve da classic-rocker, con finezze come l’incedere decisamente black di Killing Time, straordinario brano
sorretto da ritmica pulsante e wurlitzer a commento. La partenza con i 9 minuti
e passa (e non annoiano…) di Woman
poi è davvero da applausi, brano strascicato e in lento crescendo che prepara
ad una Northern Blues che quasi sa di
versione freak di Tom Petty e una bella e delicata Mizzy C. E andando avanti sempre più il rock americano entra nelle
vene, con una Runaway che potrebbe
davvero appartenere a qualsiasi cantautore di Nashville, una Wasted Love che sa di band di Americana,
o Lover Come Back che invade il campo
di un Amos Lee, per dirne uno a caso. Si chiude con la folkie Map Of The World e la maestosa Friends, prima di una Blood che recupera il tono un po’
melodrammatico della partenza. Non sa di promozione al rango di autore di
punta, quando solo di quella volta che anche un artista minore azzecca il disco
giusto. Diamogli perlomeno questo merito e soddisfazione.
Nicola Gervasini
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