giovedì 30 aprile 2015

JOE COCKER

Anche per Joe Cocker, morto lo scorso 21 dicembre, come per i tanti eroi del rock che ci hanno lasciati, il mondo social si è mobilitato in una serie di post commemorativi. Singolare però che il video più postato per ricordarlo, insieme alla storica esibizione di Woodstock, sia stata la gag al Saturday Night Live del 1976, quando Joe accettò di esibirsi al fianco di un John Belushi che ne sbeffeggiava le caricaturali movenze. Se nel primo caso Cocker si creò una carriera prendendo a sberle il popolo del Peace&Love con una With a Little Help from My Friends dei Beatles che trasudava la guerra e la rabbia della low-class inglese (da giovane era stato un semplice idraulico di Sheffield), nel secondo caso, prestandosi alla propria presa in giro, Joe ammise implicitamente di recitare la parte del tipico inglese tutto Pub e Soul di cui rimane indiscussa icona. Sarà per questo atteggiarsi che non è mai stato troppo amato dalla critica rock, pronta a riconoscere che il tour del 1970 che diede vita al suo capolavoro (il live Mad Dogs & Englishmen) resta uno degli avvenimenti più esaltanti dell’epoca, ma magari dimentica di quanto anche il New Orleans-oriented  Luxury Can Afford del 1978 o lo strano flirt con la new wave di Sheffield Steel del 1982 andrebbero perlomeno riscoperti. Invece oggi stampa e pubblico lo hanno ricordato soprattutto per come ha saputo dare voce all’immaginario degli anni 80, e via quindi post della scena finale del melò militare Ufficiale E Gentiluomo o dell’inarrivabile spogliarello di Kim Basinger in Nove Settimane e Mezzo, mentre ben pochi hanno invece ricordato la commovente scena di Carlito’s Way di De Palma commentata dalla sua You Are So Beautiful.  Non aveva particolari discorsi artistici da vantare Cocker, se non quello di trasformare in ruggito canzoni altrui, lui così poco abituato ad essere autore (ma la devastante High Time We Went è farina del suo sacco), eppure lo ha saputo fare con gran classe anche negli ultimi vent’anni, seppur con una produzione non sempre all’altezza. Anche senza dover tirare in ballo il nostro Zucchero, che non ha mai smesso di saccheggiarne movenze e partiture, il suo stile ha fatto scuola, come anche la sua concezione tutta bianca della musica nera, pregna di una potenza che resta la sua eredità più evidente.

Nicola Gervasini

lunedì 27 aprile 2015

ADRIAN CROWLEY


 Adrian Crowley 
Some Blue Morning
[
Chemikal Underground/ Audioglobe 
2014]
www.chemikal.co.uk

 File Under: way to blue

di Nicola Gervasini (19/01/2015)
Certi dischi nascono per fare da score a determinati momenti della vita di un uomo. Vanno quindi al di là di ogni considerazione critica perché appaiono, fin dal primo ascolto, funzionali ad un particolare momento e ad una determinata atmosfera. Non potete dunque ascoltare Some Blue Morning di Adrian Crowley mentre siete in coda in autostrada o per darvi la carica prima di affrontare una notte di divertimenti. Il titolo parla chiaro: alcuni, mica tutti, tristi mattini. Al massimo selezionati malinconici tramonti, ma già si esce fuori tema. Perché le undici canzoni che compongono Some Blue Morning hanno tutte un unico fine: dare suono a pigri e uggiosi mattini autunnali. Un pregio, ma anche un limite, che forse ha condizionato molto la già lunga carriera di Crowley, "il miglior songwriter che nessuno ha mai ascoltato" secondo il Ryan Adams di una vecchia intervista del 2005, sei album a partire dal 1999 in cui la vena malinconica e evocativa si è via via accentuata, fino a questo lavoro in cui l'apoteosi di suoni d'atmosfera e voce cavernosa raggiunge lo zenith.

Immaginate un Lee Hazlewood riletto da Nick Cave, Mark Lanegan o soprattutto Bill Callahan (davvero simile la voce in alcuni momenti), con una produzione decisamente più britannica che potrebbe anche richiamare alla mente il Richard Hawley di Cole's Porter. Il bello sta tutto nella perfezione formale che fa si che questo album stia ottenendo più attenzioni del solito, grazie a brani come la title-track o l'ottima The Stranger. Crowley cerca il punto di svolta della sua carriera attraverso brani decisamente suggestivi, e in parte riesce ad impressionare, ma scivola poi però nell'insistenza su un manierismo programmatico che rende la sua proposta infine un po' monocorde. Derivazioni di folk irlandese (molto bella The Magpie Song in questo senso) e new wave britannica vecchia e meno vecchia (The Hungry Grass sta tra gli Echo & The Bunnymen e i Tindersticks come ispirazione) si mischiano in un suono caratterizzato spesso dagli archi forniti da alcuni membri dei Geese, un ensamble londinese di archi molto noto nell'ambiente classico.

La produzione di Steve Shannon, da sempre suo collaboratore , è patinata e decisamente estetizzante. Il limite è implicito: Crowley non cambia mai registro, e talvolta esagera nel buttarsi in atmosfere nebbiose (Follow If You Must suona come un omaggio al Leonard Cohen prima maniera, ma non ne eguaglia né la liricità, né la grazia, mentre il lungo spoken di The Wild Boar appare un momento di inutile calo di tensione). Dopo un inizio brillante, la parte finale del disco stanca e annoia e richiede a gran voce un cambio di ritmo che non arriva mai. Sarà forse per questo che Crowley continua a essere una promessa non mantenuta, anche quando con Some Blue Morning raggiunge la sua personale maturità.


giovedì 23 aprile 2015

CRACKER


 Cracker
Berkeley to Bakersfield
[
429 Records/ Floating World 
2015]
www.crackersoul.com

 File Under: Left to Right

di Nicola Gervasini (03/01/2015)
Non ci si interroga neanche più su quale siano ormai le differenze tra Camper Van Beethoven e Cracker. Se i primi sono stati simbolo d'avanguardia negli anni 80, i secondi hanno poi normalizzato la lezione nei grandi dischi pubblicati negli anni 90, con più focus sulle canzoni, e molta meno sperimentazione. Negli anni 2000 le due sigle si sono però confuse in un unico percorso che fa capo al leader David Lowery, ormai unico vero deus ex machina di tutto. Tanto che Berkeley to Bakersfield esce a nome Cracker, ma pare un terzo lungo capitolo finale della doppietta di album usciti come Camper Van Beethoven tra il 2013 e il 2014 (La Costa Perdida e El Camino Real). Ma se in quel caso si celebrava la West Coast da un punto di vista quasi turistico, il nuovo progetto racchiude un viaggio socio-politico tra San Francisco (Berkeley) e Los Angeles (Bakersfield è nelle vicinanze).

Due album in uno, il primo (Berkeley) decisamente rock-oriented, con un sound che rimanda ai loro capolavori come Kerosene Hat e Gentleman's Blues, mentre il secondo sposta il baricentro più verso il country e la roots-music . Quello che però sorprende è che finalmente la strabordante prolificità di Lowery pare nuovamente focalizzata sulle canzoni e non sulle forzature dovute al plot del progetto. In altre parole Berkeley to Bakersfield potrebbe essere davvero il loro disco definitivo, il riassunto di tutta una carriera mai troppo lodata, seppur cosparsa di troppi titoli minori negli ultimi anni. I due album hanno avuto anche una genesi diversa: Berkeley infatti vede in azione per la prima volta dopo tanto tempo la line-up storica con Lowery, Johnny Hickman, Davey Faragher e Michael Urbano, mentre Bakersfield vede i soli Lowery e Hickman a comando di una folta schiera di session-man della country-music. Ma al di là degli aspetti produttivi, il disco è in verità un bellissimo affresco del mondo politico statunitense, simbolizzato dalla progressista Berkeley e dalla ben più storicamente conservatrice Bakersfield, città che distano poco in termini geografici (solo cinque ore di macchina), ma tantissimo come stile di vita proposto.

Magari poi ci sarebbe da discutere sulla scelta di rappresentare il pensiero progressista americano con un sound decisamente garage-oriented e quello più conservatore con i blandi ritmi della country music, ma Lowery è uomo in grado di usare con intelligenza anche i più triti stereotipi. Charles Pitter di Popmatters ha definito l'album "uno duello alla morte tra i Flamin Groovies e Merle Haggard", e francamente non ci provo neanche a trovare definizione più centrata. Non c'è spazio per entrare nel merito di ogni singolo brano (diciotto in tutto, e davvero nulla da buttare via), ma il consiglio (o direi proprio imperativo) e di ascoltare l'album testi alla mano e assaporare così al meglio la verve ironica di Lowery, degna dei comics Doonesbury di Garry B. Trudeau (se non le conoscete, riparate in fretta, sono la via migliore per comprendere la politica americana). Per il resto, dopo l'exploit di Lucinda Williams, questo è il secondo album doppio che fa centro pieno negli ultimi mesi, un vero pugno in pancia al "tutto, tanto e possibilmente veloce" che domina i nostri ascolti in questi anni dieci. Se cercate il titolo su cui soffermarvi con più attenzione, a Berkeley to Bakersfield non manca davvero nulla: grandi canzoni, grandi melodie, ottima produzione, e testi che vi chiariranno tutta la follia politica e sociale degli stati Uniti. Il tutto percorrendo solo cinque ore di macchina. 

lunedì 20 aprile 2015

T-BONE BURNETT & HANDSOME FAMILY

Un paesaggio industriale avvolto nella nebbia proiettato all’interno di figure dall’aria sinistra, e, a commento, un valzer country pigro e indolente, lugubre, quasi gotico. Inizia così il serial True Detective, quanto basta perché sigla e canzone siano già un nuovo piccolo culto tra gli appassionati. Il segreto è tutto proprio nella scelta del brano, una Far From Any Road pescata nel misconosciuto repertorio degli Handsome Family, duo alternative-country ancora oggi attivo, e titolare di una discografia altamente consigliata perlomeno per quel che riguarda il periodo d’oro 1996-2003 (il brano di True Detective proviene dall’album Singing Bones del 2003). E’ la dimostrazione che ci vuole talento e fiuto non solo per creare musica per immagini, ma anche per scegliere e selezionare quella più adatta. E T-Bone Burnett, responsabile della soundtrack di tutta la serie di Nic Pizzolatto, da anni eccelle in entrambe le arti. Lui è uno degli ultimi produttori di vecchia concezione rimasti nel firmamento del rock americano, ormai frantumato dall’avvento della produzione casalinga e indipendente. E’ uno di quelli che quando produce un album impone un proprio suono e una propria filosofia, con i pro (produzioni pressoché perfette e sempre  emotivamente penetranti) e contro (il rischio è che tanti artisti tra loro diversi finiscano a fare lo stesso disco) che la cosa comporta, ma quando lavora per il cinema Burnett sa sempre dare la giusta priorità alle immagini. D’altronde già nel 1976 il suo esordio da musicista professionista fu immortalato da un Bob Dylan improvvisato a regista per Renaldo e Clara, film in cui T-Bone, giovane e sconosciuto chitarrista ritmico della Rolling Thunder Revue, si muoveva già con la sicurezza del professionista. Ma il suo rapporto con il cinema inizia solo nel 1993, quando Wim Wenders utilizza un suo brano per il suo Fino Alla Fine del Mondo, ed è la scoperta di quanto il suo suono bene si sposi con la celluloide. Negli anni novanta produce così le colonne sonore di Io Ballo da Sola di Bertolucci, L’Uomo che sussurrava ai cavalli di Robert Redford, Il sapore del Sangue di Dave Dobkin, e supervisiona la scelta di brani per Il Grande Lebowski dei fratelli Coen. Ed è grazie a loro che nel 2000 che arriva il gran colpo, con lo score di  O Brother, Where Art Thou?, colonna sonora vendutissima e premiatissima, che ha avuto anche il merito di lanciare una corrente di bluegrass-revival che ha ravvivato non poco il mondo musicale americano di quegli anni. Da allora piovono successi: dal documentario sul mondo bluegrass Down From The Mountain, nato proprio sulla scia del lavoro per il film dei Coen, alle soundtrack per Ritorno a Cold Mountain di Anthony Minghella, Ladykillers ancora dei Coen, e il biopic su Johnny Cash I Walk The Line (Quando l’amore brucia l’anima in Italia). Nel 2010 arriva poi la definitiva consacrazione del matrimonio tra cinema e musica roots con la colonna sonora di Crazy Heart di Scott Cooper, grazie all’oscar vinto dal brano The Weary Kind, interpretato da Ryan Bingham. Hollywood prova allora a fargli salire un gradino nello star-system e arrivano lo score pensato per il blockbuster Hunger Games e, appunto, la consacrazione nel mondo dei serial con la colonna sonora per True Detective. Che è un felice campionario del meglio della musica roots (e non solo), assemblato con abile mix di classici e pezzi minori tutti da scoprire. Lui assicura che quella cinematografica non sia la sua occupazione principale, ma l’impressione è che True Detective sposterà non poco il focus della sua carriera, visto che già ha molto rallentato l’attività di produttore (The Diving Board di Elton John è l’ultimo album che porta la sua firma), e al massimo si è concentrato su progetti personali come il recentissimo Lost On The River: The New Basement Tapes, album in cui ha musicato una serie di testi inediti di Bob Dylan. Resta dunque solo da capire per quale altra serie in futuro ci farà ancora da perfetto deejay.


Nicola Gervasini

HANDSOME FAMILY

Diventati artisti più per gioco d’amore che per vocazione, i coniugi Brett e Rennie Sparks furono ironicamente battezzati The Handsome Family  dal loro batterista per il loro look decisamente anti-estetico. I due venivano da Chicago e si fecero notare dalla critica nel 1996 con il secondo album Milk And Scissors, forti di una formula musicale tra le più interessanti di quegli anni, definita dai critici gothic-country. Strutture tradizionali prettamente a base di chitarre acustiche e banjo si sposavano infatti a lugubri melodie che guardavano a Nick Cave e ai nuovi eroi del mondo indie (Bill Callahan su tutti). Il risultato era unico ai tempi, oggi pare invece imitatissimo, tanto che un loro brano di più di dieci anni fa finisce pure per sembrare moderno come sigla di un serial televisivo.


Nicola Gervasini

giovedì 16 aprile 2015

SWAMP DOGG



Swamp Dogg
The White Man Made Me Do It
(Alive Naturalsound, 2014)
File Under: Total Reconstruction of your Soul

Perché poi alla fine succede sempre così: il New Soul ha vissuto bene negli anni 2000, grazie a tante giovani leve (da Sharon Jones a Black Joe Lewis) e qualche vecchio miracolosamente promosso in serie A dopo una esistenza nell’ombra (Lee Fields, Charles Bradley), ma alla fine è quando si muovono i grandi nomi del passato che le cose acquistano un grande spessore. E così se purtroppo Solomon Burke ci ha abbandonato proprio sul più bello, dal passato si risveglia improvvisamente Swamp Dogg, nome meno altisonante solo per chi non ha mia veramente studiato black music. E basterebbero anche solo i sette minuti della title track che aprono questo The White Man Made Me Do It a spazzare via tutti questi anni di soul rigenerato, con una funky-song che insegna a tutti come si arrangiano i fiati, come si tiene un ritmo, e come si può fare critica sociale con tagliente ironia. Autore di una serie di album straordinari all’inizio degli anni settanta (non tornate a casa senza avere una copia di Total Destruction to Your Mind del 1970), in cui praticamente scrisse tutto quello che il new soul odierno ha poi riletto fedelmente, Swamp Dogg è stato artista intelligente quanto discontinuo. Colpa proprio di quella sua versatilità e capacità di bypassare gli schemi classici del soul, di proporre con ironia e un pizzico di irriverenza anche una Sam Stone di John Prine al pubblico nero in piena guerra era del Vietnam, di usare liriche spesso volgari e politicamente scorrette, tanto da essere stato visto un po’ come il Frank Zappa della black music. S’era un po’ perso fino ad oggi, come tutti, ma The White Man Made Me Do It lo rimette in pista alla grande. E ce lo restituisce esattamente come ce lo ricordavamo: autoironico (“sono il più riuscito fallimento degli Stati Uniti” ha dichiarato presentando il disco), socialmente irriverente (il titolo rievoca vecchie battaglie anti-razziste, combattute sempre con l’arma del sarcasmo e non con quella della rabbia, come suo stile) e con la solita vecchia gran bella voce a condire irresistibili funky jam e intense soul-ballads. Album lungo (14 brani per più di sessanta minuti) ma in fondo necessario, The White Man Made Me Do It è una piccola festa che fa un riassunto di una carriera attraverso suoni e melodie certo non innovative. La chitarra acida di Lying Lying Lying Woman è ancora oggi la partitura su cui Lenny Kravitz ha costruito una ben più fruttuosa e furba carriera, Il solare reggae-soul di Renae, soul-ballad da manuale (You Send Me), blues (Let Me Be Wrong) rhythm & blues (Your Cash Ain’t Nothing But Trash) e qualche azzeccata cover (la sempre trascinante Smokey Joe’s Cafe di Leiber e Stoller) . Non manca nulla, neanche un tributo a Sly Stone in Can Anybody Tell Me Where is Sly? che sa di nostalgia per i tempi in cui questa musica segnava la via a mille artisti, con una punta anche di autoironia sulla consapevolezza di quanto anche questo disco sia ormai fuori dal tempo. Eppure il soul che passa nelle vene di questi brani è lo stesso che ha ripopolato gli stereo di questi anni, per cui ben venga che ci sia qualche vecchio professore che ne ribadisca l’eterna modernità.


Nicola Gervasini

lunedì 13 aprile 2015

THOMPSON


 Thompson
Family
[
Concord/ Fantasy 
2014]
www.thompsonfamilyalbum.com

 File Under: family tradition

di Nicola Gervasini (16/12/2014)
Già normalmente le unioni di grandi talenti difficilmente producono risultati più clamorosi degli sforzi singoli, figuriamoci se poi il trait d'union di un progetto è una pura questione famigliare come quella che ha portato la non certo storicamente serena famiglia Thompson ad un album curioso come Family. Stiamo pur sempre parlando di un nucleo famigliare nato da una delle coppie più importanti del brit-folk degli anni settanta come Richard e Linda Thompson, ma anche titolari nel 1982 di uno dei più belli e intensi split-album della storia (Shoot Out The Lights, personalmente secondo solo a Blood On The Tracks di Dylan nel genere). Negli anni però il figlio Teddy è riuscito a ricucire perlomeno un rapporto civile e artistico tra i due, e metterli di nuovo assieme in un progetto che rappresenta la sua vittoria più grande.

Family va infatti considerato un episodio della sua discografia più che di quella dell'ingombrante papà ("Mio padre è uno dei più grandi artisti che abbiano calcato un palco" lo presenta Teddy nella canzone che dà il titolo all'album) e della rigenerata mamma Linda ("Mia mamma ha una delle più belle voci della terra"), che negli anni 2000 ha ripreso una propria attività, con anche buoni risultati (da recuperare sicuramente Versatile Heart del 2007). Il buon Teddy, produttore del disco, ha poi voluto coinvolgere anche una larga schiera di propri famigliari, con un'unica regola: ogni strumento doveva essere suonato da un parente. Il tutto viene presentato e spiegato nel brano iniziale Family, godibilissima country-ballad che a conti fatti risulterà l'episodio più interessante dell'album. Che purtroppo vive un po' di mancanza di coesione (si sa che lavorare in famiglia non è mai così semplice), e soprattutto di un repertorio all'altezza dei nomi coinvolti.

Papà Richard offre la sua chitarra (e già basta e avanza per farne un disco necessario), un paio di brani godibili ma evidentemente minori come That's Enough e Once Life at a Time, e uno strumentale pressoché inutile comeAt The Feet Of Emperor, mentre mamma Linda va sul sicuro con le tradizionalissime Bonny Boys e Perhaps We Can Sleep, ma alla fine è la sorellina Kami a guidare nella deliziosa Careful uno degli episodi migliori dell'album. Teddy dal canto suo si atteggia spesso a novello cantante roots, cercando prima Lyle Lovett nella title-track e in Root So Bitter, poi Chris Isaak in Right, evidenziando solo quanto anche loro siano di un livello per lui irraggiungibile. Finale corale con Lonely, e tutti a casa per il cenone di Natale. Noi partecipiamo divertiti alla riunione, ma il lavoro serio poi mamma e papà lo fanno altrove. E forse anche lo stesso Teddy.


sabato 11 aprile 2015

RAMBLING WHEELS

RAMBLING WHEELS
THE THIRTEEN WOMEN OF ILL REPUTE
Rumblin’ Records
***
Il sottobosco di band filo-americane che popola i pub europei è folto e insondabile per mere questioni di quantità (ma, spesso, anche di qualità), per cui naturale che siamo ormai abituati a prestare attenzione alla scena nostrana (in questi ultimi anni decisamente cresciuta e maturata, pur con tutti i limiti di un modo di fare musica che resta derivativo e diretto a modelli ben precisi), piuttosto che guardare in altri paesi. Ogni tanto giusto però concedersi un’eccezione alla regola, soprattutto quando una band della Svizzera francofona (vengono da Neuchatel) dimostra di aver saputo mettere a frutto più di dieci anni di vita on the road per un disco che appare decisamente maturo e pronto ad uscire dai confini della loro confederazione. Magari il nome della band (The Rambling Wheels) non è proprio dei più innovativi, visto che unisce due termini abusatissimi dell’epica roots-rock, ma il loro terzo album da professionisti The Thirteen Women of Ill Repute dimostra, pur con tutti i suoi difetti, di aver fatto tesoro di quanto gli Stati Uniti hanno espresso in questi anni duemila. Ascoltare ad esempio la forza pop di un brano come Running After Time, che fa tesoro di sonorità che ricordano parecchio gli Spoon degli anni d’oro. Ed è proprio l’aspetto produttivo la cosa che impressiona di più del disco, perché da una produzione indie non è facile ascoltare riferimenti di dance/elettronica come quelli di Dead On Time fatti con così buona perizia e non piazzati a casaccio in un contesto che certo pop-dance non è.  Non si ha insomma quella sensazione di “suona così perché con i mezzi a disposizione non potevamo fare altrimenti” che spesso inficia un po’ l’aspetto produttivo di molte produzioni indipendenti, e non solo nostrane. Altrove la band sa andare anche sul classico (soprattutto nella parte iniziale dell’album, dove forse hanno voluto mettere a proprio agio il pubblico più tradizionalista), ma riferimenti e stili sono parecchi e svariati, e più o meno assemblati con cognizione di causa. Forse l’attenzione all’effetto fa ancora mancare un occhio di riguardo alla sostanza, per cui spesso molti brani fanno fatica a fare presa se non per qualche invenzione a livello di arrangiamento, ma il risultato è comunque encomiabile per una band che sicuramente ha il santino dei belgi dEUS (la band indie europea per eccellenza, quelli che “ce l’hanno fatta” insomma a farsi rispettare in tutto il mondo) sullo specchietto della macchina. Rock, folk e inserti di pop radiofonico per un disco coraggioso: la strada per diventare qualcosa di più di una realtà locale passa attraverso queste scelte non banali.


Nicola Gervasini 

mercoledì 8 aprile 2015

DISTANCE, LIGHT & SKY

DISTANCE, LIGHT & SKY
CASTING NETS
Glitterhouse
***

Chi scrive ha una ammirazione smisurata per Chris Eckman, sia come produttore, che come autore e cantante. Sul suo glorioso passato con i Walkabouts (e anche presente, visto l’ottimo livello dell’album Travels in the Dustland del 2011), nulla da aggiungere, come anche sulle sue tante produzioni nate negli ultimi 15 anni tra Praga e la Slovenia, dove ormai opera stabilmente, ma forse è tempo di fare un piccolo discorso che sappia di “punto della situazione” sui suoi tanti progetti. Ce ne dà l’occasione il primo album di una sua ennesima nuova creatura discografica, i Distance, Light & Sky, nome che di fatto rappresenta lo stesso Eckman e la vocalista olandese Chantal Acda. E l’uso dell’aggettivo “ennesimo” potrebbe già far capire dove si vuole andare a parare: Casting Nets infatti è l’ennesimo (appunto) prodotto suggestivo e di atmosfera nato dai suoi studi, tutto retto su brani elettro-acustici di atmosfera dark e notturna che giocano sull’interscambio tra la voce cavernosa di Chris e quella dolce e eterea della Acda, che qualcuno magari già conosce come solista e come voce della band britannica Isbells. Il problema è che se i tanti side-project di Eckman, nel bene e nel male, erano caratterizzati da un concetto di studio e sperimentazione (si pensi agli esperimenti techno-afro dei dischi dei Dirtmusic o a quelli di musica d’avanguardia dei L/O/S/T), Casting Nets appare come una semplice riproposizione del sound Walkabouts (o forse, ancora più precisamente, ricorda i dischi usciti come Chris & Carla), semplicemente con una attrice principale diversa. Nulla di male quindi, i fans di Eckman ritroveranno in questi dieci brani tutti gli elementi che si aspettano da un suo album, forse con uno spostamento di baricentro verso folk e  tradizione che ricorda quasi i dischi di Mark Lanegan con Isobel Campbell. Strumentazione ridotta al minimo (unico session-man presente oltre al duo è il percussionista Eric Thielemans), qualche brano comunque degno di essere approfondito (Son, This Place), ma anche una sensazione di dejà vù e di una certa stanchezza in termini di nuove brillanti idee da parte del padrone di casa. E una nuova sigla che aumenta solo l’ormai ingestibile confusione della sua discografia. In altre parole, un album più che discreto, ma che resterà un episodio minore di una grande saga.

Nicola Gervasini

lunedì 6 aprile 2015

GUANO PADANO


 Guano Padano Americana[Ponderosa Music & Art 2014] 

www.guanopadano.it

 File Under: Padamericana

di Nicola Gervasini (03/12/2014)

Mettere il disco dei Guano Padano in bacheca accanto a quelli dei Sacri Cuori sarà forse inevitabile, se usate archiviare per genere e non per ordine alfabetico, o magari chi preferisce un ordine "a tema" potrebbe anche scegliere di piazzarli in appendice all'intera discografia di Vinicio Capossela, visto che il batterista Zeno De Rossi è un suo assiduo collaboratore. Con la ormai abbastanza nota band di Antonio Gramentieri i tre (completano il combo Alessandro "Asso" Stefana e Danilo Gallo) hanno in comune quel gusto di unire tradizione padana (nel loro caso richiamata anche nel nome) e di una certa americana/roots riconducibile ai Calexico e dintorni.

Eppure Americana, titolo e immagine di copertina quanto mai esplicativi, si differenzia molto da Rosario, pur essendo entrambi album prettamente strumentali: laddove Rosario guardava all'America creando immagini che si sposassero con la tradizione padana, Americana non guarda ma legge, cerca il lato letterario pur negando la parola. In altre parole se Rosario sa di colonna sonora di un ipotetico road-movie italo-americano (non a caso i Sacri Cuori sono poi stati chiamati a comporne una per il film Zoran), Americana potrebbe essere l'ideale sottofondo di un reading di Jack Kerouac o Allen Ginsberg, in pure stile da beat generation. La ragione sta nella ratio del progetto: 17 frammenti musicali pensati come commento ad altrettanti racconti di autori americani che il grande Elio Vittorini (aiutato da Cesare Pavese, Eugenio Montale e Alberto Moravia per le traduzioni) riunì in una storica antologia negli anni quaranta, che costituisce ancora oggi il primo grande tentativo di portare la letteratura statunitense nelle case degli italiani, molto prima dell'avvento di Fernanda Pivano.

John Steinbeck, John Fante, William Faulkner, Ernest Hemingway e tanti altri nomi più o meno rimasti celebri sono le muse di 17 brani che loro stessi dicono ispirarsi a Calexico (ça va sans dire…), Morricone (ma va?) e Link Wray (e qui la cosa si fa più originale). Di fatto Americana è un disco di suggestioni varie, dove solo le voce di John Fante che descrive il padre in Dago Red e di Joey Burns che in My Town descrive la sua città natale attraverso le parole di Sherwood Anderson rompono il ritmo esclusivamente musicale dell'album, oltre all'unico brano veramente cantato (The Seed and The Soil, con la voce di Francesca Amati). Intervengono poi una sempre opportuna sezione fiati (spettacolare in Pian della Tortilla, ovviamente dedicata a Steinbeck) e qualche comparsata di Cabo San Roque e Mark Orton (quest'ultimo è l'autore della colonna sonora del film Nebraska di Alexander Payne).

L'ideale per gustare sarebbe recuperare la preziosa antologia del Vittorini e rileggerla con queste canzoni, per capire se poi davvero i tre hanno colto lo spirito di quelle parole, ma anche come disco a sé stante Americanarappresenta un nuovo importante capitolo di una integrazione culturale tra tradizione italiana e americana che purtroppo non si è mai compiuta a fondo.

venerdì 3 aprile 2015

FOO FIGHTERS

E poi arrivò il giorno in cui Dave Grohl si rese conto che in questa storia del rock non sta transitando da spettatore, ma conserva pur sempre un posto d’onore, con tutte le responsabilità che questo comporta. Come quella di non vivere sul passato Nirvana, ma neppure su quello degli stessi Foo Fighters. Nato come un estemporaneo side-project nel 1995 con un esordio atipico e a suo modo avanti nel tempo (quasi un pre-indie), maturato poi in un rock ad alto voltaggio con il grande The Colour and the Shape del 1997, il progetto Foo Fighters si era via via consumato in una faciloneria da rock pro-MTV generation. Sonic Highways (Rca) cambia tutto: Grohl per la prima volta smette di giocare ad essere il giovane che più non è, e matura un progetto da alta scuola rock. Otto brani che narrano otto città americane anche attraverso otto mini-film, trasmessi con successo dalla pay-tv HBO. Chicago, Austin, Nashville, Los Angeles, Seattle, New Orleans, Washington e New York vengono descritte partendo dagli studi di registrazione dove sono nati i brani, con un’ampia analisi visiva della moderna cultura americana e una serie di interviste agli eroi musicali del luogo (Dolly Parton, Paul Stanley dei Kiss, Joe Walsh degli Eagles, e tanti altri). Pretenzioso parrebbe, eppure Grohl azzecca misura e gusto, con un lotto di brani finemente scritti (ascoltate Congregation o Subterranean ad esempio) che dimostrano che forse ogni tanto ci fa, ma, se volesse, ci sarebbe sempre. Certo, gli anni 2000 sembrano passati invano in queste note, e il revival anni 90 è dietro l’angolo, e qualche accanito fan mugugna un po’ per questa versione più intellettualizzata della band. Eppure il marchio di fabbrica resta comunque riconoscibilissimo fin dalla iniziale Something From Nothing, in cui si fanno aiutare da Rick Nielsen dei Cheap Trick per un viaggio nei bassifondi di Chicago, o quando chiamano  Ian MacKaye dei Minor Threat e Fugazi per spiegare al mondo cosa è stata la scena hardcore di Washington. Grohl passa dunque alla didattica attraverso i suoi miti (da Willie Nelson agli ZZTop), con un atteggiamento da padre consapevole che chiude finalmente l’era della X generation.

Nicola Gervasini

mercoledì 1 aprile 2015

THE ART OF PAUL McCARTNEY

Vari
The Art Of McCartney
(Self, 2014)
File Under: Things We said again and again…

Innanzitutto ci sarebbe da dire che i tribute-album hanno anche stufato. Più che altro paiono un fenomeno che non accenna a diminuire da anni, contro ogni previsione, come se il rock non trovasse niente di meglio che celebrare se stesso. Ma questo è discorso già fatto. In più ora il fenomeno si è allargato anche nella dimensione: vere e proprie maratone di cover come questo The Art Of McCartney, dedicato ad un signor Macca che tra l’altro è artista ancora vivo e attivo, e di certo non necessitava di ulteriori celebrazioni (considerando le miriadi di Beatles-tribute già esistenti). Ma al di là della sfiancante lunghezza del progetto, il problema è un altro: i tribute-album sono ormai in gran parte delle semplici raccolte di compitini svolti su commissione, in cui è ormai difficile trovare qualcuno che provi non solo ad esserci, ma anche a rileggere, ripensare, reinterpretare la musica di Sir Paul. Vale qui lo stesso discorso fatto a suo tempo per l’analogo (fallimentare) tributo a Dylan promosso da Amnesty International: di cover dei Beatles e di Dylan ne sono piene tutte le discografie del mondo, per cui al massimo qui si potrebbe trovare interesse in qualche rilettura del catalogo solista di McCartney che forse non è così inflazionato. Perché fin dalle scolasticissime interpretazioni di Billy Joel che aprono i due cd (Maybe I’m Amazed e una fiacca Live And Let Die che fa rimpiangere persino quella dei Guns N Roses) il clima è quello di imitare McCartney, e, nel caso di Billy Joel, essendo la voce pure simile, l’effetto è da imitazione da show televisivo del sabato sera. Persino il buon vecchio Bob Dylan tratta Things We Said Today esattamente come un qualsiasi suo brano degli ultimi 15 anni, mancando (proprio lui) l’occasione per un singolare e intrigante stravolgimento di uno dei pezzi più geniali dei fab four. Per cui consolatevi pure con il fatto che nulla qui dentro sia da buttare in assoluto, e che in fondo nessuno ci propina particolari nefandezze: sono grandi canzoni rifatte da grandi (o più o meno grandi) artisti. Ma il senso di comprarsi un simile tomo è solo quello collezionistico, perché davvero nessuna di queste versioni appare necessaria, anche senza voler pretendere che vadano oltre l’originale o versioni più note e storiche. Per cui ben venga sentire il vecchio Dion alle prese con Drive My Car, o i soliti Dr John e Allen Toussaint che da New Orleans svolgono un egregio lavoro su Let Em In e Lady Madonna, o prendere atto che in fondo le riletture più irriverenti e divertenti arrivino dal mondo dell’hard rock, dove persino Kiss e Def Leppard riescono a fare una discreta figura insieme ad altri giganti come Alice Cooper, Sammy Hagar o a vecchie rockstar scafate come Roger Daltrey, Paul Rodgers e via dicendo. Ma il fatto è un altro: già mi chiedo che senso avrebbe dare anche un secondo ascolto a questo album, quando là fuori il mondo è pieno di nuovi album (o, se preferite, anche di vecchi ancora da riscoprire) che sapranno darvi molto di più di questa passerella di divi.  McCartney è una pietra miliare del rock e del pop: lo sapevamo già…per cui su, dai, smettiamola di raccontarcelo ancora una volta, e, come si dice in Lombardia, tiremm innanz!

Nicola Gervasini                                                                             \                                                                                                                                                                                                                                                                                        

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