RAMBLING WHEELS
THE THIRTEEN WOMEN OF
ILL REPUTE
Rumblin’ Records
***
Il sottobosco di band
filo-americane che popola i pub europei è folto e insondabile per mere
questioni di quantità (ma, spesso, anche di qualità), per cui naturale che
siamo ormai abituati a prestare attenzione alla scena nostrana (in questi
ultimi anni decisamente cresciuta e maturata, pur con tutti i limiti di un modo
di fare musica che resta derivativo e diretto a modelli ben precisi), piuttosto
che guardare in altri paesi. Ogni tanto giusto però concedersi un’eccezione
alla regola, soprattutto quando una band della Svizzera francofona (vengono da
Neuchatel) dimostra di aver saputo mettere a frutto più di dieci anni di vita on
the road per un disco che appare decisamente maturo e pronto ad uscire dai
confini della loro confederazione. Magari il nome della band (The Rambling Wheels) non è proprio dei
più innovativi, visto che unisce due termini abusatissimi dell’epica
roots-rock, ma il loro terzo album da professionisti The Thirteen Women of Ill Repute
dimostra, pur con tutti i suoi difetti, di aver fatto tesoro di quanto gli
Stati Uniti hanno espresso in questi anni duemila. Ascoltare ad esempio la
forza pop di un brano come Running After
Time, che fa tesoro di sonorità che ricordano parecchio gli Spoon degli
anni d’oro. Ed è proprio l’aspetto produttivo la cosa che impressiona di più
del disco, perché da una produzione indie non è facile ascoltare riferimenti di
dance/elettronica come quelli di Dead On
Time fatti con così buona perizia e non piazzati a casaccio in un contesto
che certo pop-dance non è. Non si ha
insomma quella sensazione di “suona così perché con i mezzi a disposizione non
potevamo fare altrimenti” che spesso inficia un po’ l’aspetto produttivo di
molte produzioni indipendenti, e non solo nostrane. Altrove la band sa andare
anche sul classico (soprattutto nella parte iniziale dell’album, dove forse
hanno voluto mettere a proprio agio il pubblico più tradizionalista), ma
riferimenti e stili sono parecchi e svariati, e più o meno assemblati con
cognizione di causa. Forse l’attenzione all’effetto fa ancora mancare un occhio
di riguardo alla sostanza, per cui spesso molti brani fanno fatica a fare presa
se non per qualche invenzione a livello di arrangiamento, ma il risultato è
comunque encomiabile per una band che sicuramente ha il santino dei belgi dEUS
(la band indie europea per eccellenza, quelli che “ce l’hanno fatta” insomma a
farsi rispettare in tutto il mondo) sullo specchietto della macchina. Rock,
folk e inserti di pop radiofonico per un disco coraggioso: la strada per
diventare qualcosa di più di una realtà locale passa attraverso queste scelte
non banali.
Nicola Gervasini
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