giovedì 25 febbraio 2016

BELLA HARDY






Bella Hardy
With the Dawn
[Noe Records 2015]
www.bellahardy.com
File Under: Visionary Folk

Di Nicola Garvasini (09/04/2015)


E' giunto il tempo anche per noi di conoscere Bella Hardy, giovane e promettente (se si può definire così un'artista giunta al settimo disco in nove anni di carriera) folksinger inglese. Il nome è il suo originale (Bella è solo il diminutivo di Arabella), e viene da Edale, sperduta località dispersa nel bel mezzo dell'Inghilterra, uno di quei posti che, solo a vederne le foto nel web, ti chiedi che altro può fare una ragazza in quelle lande verdi e solitarie se non suonare della folk music con la chitarra. Trentun anni, una laurea in letteratura e un master in musicologia nel curriculum, e una carriera musicale iniziata nel 2007 con l'album Night Visiting, fino ai tanti riconoscimenti avuti per la raccolta di traditionals rielaborati e riarrangiati (Battleplan) pubblicata nel 2013.


La BBC nel 2014 l'ha nominata "Artist of The Year", che qualsiasi cosa voglia dire, è nomination che prepara bene il campo all'uscita di questo With The Dawn, il disco che dovrebbe farla conoscere anche al di fuori del Regno Unito. La Hardy è figlia minore della tradizione brit-folk, ma fa tesoro nelle sue produzioni di tutta la riverniciatura al genere operata dal mondo indie-folk degli anni 2000. E lo fa in maniera sufficientemente personale, con un album basilarmente acustico, eppure parecchio arrangiato (produce Ben Seal), con largo uso di fiati e percussioni. Il disco parte con un tono classico, con brani come The Only Thing To Do o First Light Of The Morning che riportano alla mente i dischi migliori di Kate and Anna McGarrigle, mentre il maestoso e minaccioso arrangiamento di The Darkening of The Day regala forse il momento più alto della raccolta. Nella parte centrale il disco si fa più lento e sperimentale, in brani originali che strizzano l'occhio ai tradizionali di genere come Jolly Good Luck to the Girl That Loves A Soldier, brano che potremmo immaginare come il risultato di una session tra Joan Baez e gli Espers, o You Don't Have to Change (But You Have To Choose), anche questa parecchio elaborata nei suoni.


Tra voglie sperimentali (Another Whisky Song) e bisogno di tradizione (Time Wanders On), i trentasei minuti dell'album scorrono senza intoppi, sempre che ovviamente amiate il genere e ultimamente abbiate trovato interessanti nomi come Meg Baird o le Unthanks. Molto bella anche la piano-song finale (ironicamente intitolata And We Begin), anche se ancora aleggia una certa compostezza di maniera che non fa gridare al miracolo. Bella Hardy è solo una nuova talentuosa adepta di un mondo musicale che non accenna a scomparire neanche dopo decenni di vita, ma con le Unthanks già in calo di ossigeno dopo il deludente Mount The Air di quest'anno, potrebbe anche essere la nuova principessa ereditaria di un trono ormai vacante da tanto tempo.


sabato 20 febbraio 2016

GET WELL SOON

GET WELL SOON
LOVE
Caroline International
***1/2
Fedele al diktat degli anni zero per cui il vero artista indie deve far finta di essere una band, il tedesco Konstantin Gropper, in arte Get Well Soon, torna con un atteso quarto album. Ancora sconosciuto al di fuori dell’Europa, l’artista tedesco è una specie di star in patria e in Francia, dove i suoi dischi non mancano mai di finire delle charts. Nel 2008 del suo album d’esordio Rest Now, Weary Head! You Will Get Well Soon, che in qualche modo serviva anche da spiegazione allo strano nickname adottato, se ne parlò parecchio, grazie all’originalità dello strano pastiche tra canzoni folk, melodie pop e orchestrazioni da colonna sonora, e anche il successivo Vexations (un concept sulla sopportazione del dolore, giusto per dare un’idea dei temi trattati) ebbe comunque buone recensioni. Meno clamore aveva suscitato The Scarlet Beast O'Seven Heads del 2012, occasione giusta per una pausa di riflessione per confezionare questo Love. Che appare fin da subito il lavoro della maturità, sorta di compendio delle idee già precedentemente sviluppate, con la partenza orchestrata di It’s A Tender Maze (siamo in zona Radiohead), una It’s  a Catalogue tutta in falsetto che ricorda un po’ Charlie Darwin dei Low Anthem, e la bellissima Euology (con un feroce testo su una donna bella, ricca e viziata) che sa di fortissimamente di Morrissey. Un inizio di gran livello che fa ben sperare, prima però di una frenata con la sonnacchiosa It’s an Airlift. Bella invece It’s Love, praticamente la title-track, con i suoi sapori un po’ anni ottanta nei cori e una sezioni fiati un po’ alla Bacharach. Molto interessante anche Marienbad, brit-pop in mid-tempo che introduce nuove variazioni di stile, prima con l’ acustica 33 (un indie-folk come tanti, anzi, forse in versione scarna, Gropper non riesce a dare il meglio di se), poi con una più elettronica Young Count Falls For Nurse che sembra arrivare dal mondo Depeche Mode. Finale un po’ in calando, con una It’s a Mess che riprende lo stile alla Smiths di Euology, ma anche con il lungo e un po’ noioso finale di It’s a Fog. Tagliato di una decina di minuti, Love sarebbe un disco perfetto nella sua semplicità per riportare la musica indipendente europea ai livelli del periodo d’oro dei dEus, ma anche così tiene comunque alta l’attenzione.
Nicola Gervasini



mercoledì 17 febbraio 2016

DRESSY BESSY - KINGSIZED

DRESSY BESSY
KINGSIZED
Yep Records
***

Per la serie “toh chi si rivede”, il mondo indie-rock saluta il ritorno dei Dressy Bessy, band di Denver che aveva negli anni duemila dato una propria energica interpretazione al nuovo concetto di power-pop. Quartetto che ruota intorno alla voce e chitarra della singer Tammy Ealom (gli altri sono Rob Greene, Craig Gilbert e John Hill, quest’ultimo membro anche degli Apples In Stereo), i Dressy Bessy avevano pubblicato tra il 1999 e il 2002 due album molto riconosciuti nel mondo indipendente (Pink Hearts Yellow Moons e SoundGoRound) in cui proponevano una propria visione rock che partendo dal punk e rock californiano dei primi anni 80 (gli X direi che sono il loro riferimento principale, anche per la vaga somiglianza della voce con quella di Exene Cervenka), strizzava l’occhio a certo nuovo punk degli anni 90 alla Green Day e al movimento delle Riot Grrrl di quegli anni. Dopo altri tre album che ne confermarono il buon nome, la band si era fermata all’indomani di Holle And The Stomp del 2008. Giusto il tempo per un cambio di etichetta verso la benemerita Yep rock, e di conseguenza un nuovo sound forse più addolcito e più poppish (Pop Phenom gira dalle parti di certi B-52s fin dal titolo), ma anche più retro-oriented (quanto dei Blondie è facile trovare in un brano come la title-track Kingsized, o quanto è facile citare i Pretenders passando per i giri di chitarra di Cup’o Bang Bang). In ogni caso pochi orpelli e fronzoli: Kingsized offre tredici tracce con poche eccezioni alla regole della three-minute-song, in cui c’è spazio per brani ben strutturati (These Modern Guns), qualche scherzo indie-pop con un occhio ai Pixies (Honey Bee), reminiscenze new-wave (Dirty Birdies e i piccoli inserti di synth di Say Goodbye) e un bel finale con muro di chitarre e organetti psichedelici (In Particular). La Ealom canta con energia e forse qualche imitazione di troppo delle sopracitate eroine della canzone pop/rock, dimostrando di essere un ottima scolara, ma non certo un’artista che detta legge in termini di stile e influenza su altri. Basta comunque per consigliare Kingsized a chi ancora pensa che anche la canzone pop al femminile debba nascere nella stessa polvere che genera il garage-rock.

Nicola Gervasini



lunedì 15 febbraio 2016

WALTER SALAS HUMARA

WALTER SALAS HUMARA
WORK: PART ONE
Blue Rose Records
***
La prima bella notizia quando si parla di musicisti come Walter Salas-Humara è sapere che ancora, dopo trent’anni di carriera, questi personaggi dell’underground roots anni ottanta non mollano il colpo. Eppure lui è uno di quelli che non ha assaporato il successo neppure negli anni d’oro, nel suo caso quelli dei Silos, band che tra alti e bassi e momenti di riflessione, non ha mai smesso di essere attiva e pubblicare album fin dal 1985 (l’ultimo album in ordine di tempo è Florizona del 2011). Solo ogni tanto è riuscito a salire sulla ribalta grazie alla passione di qualche fan ben inserito negli ambienti giusti, come ad esempio quella volta che fu coinvolto nella stesura della colonna sonora originale del fortunato serial televisivo Sex And The City. Fa dunque piacere sapere che riesca ancora a vivere dividendosi tra l’attività di rocker è quella di pittore (specializzato nel dipingere cani…), soprattutto perché il suo nuovo album (il quarto come solista, live e raccolte a parte) Work: Part One lo vede tornare in forma come autore. Qui però va fatta una raccomandazione preliminare: è difficile infatti nel 2016 presentarsi ancora con un album registrato in trio acustico con l’amico e produttore Richard Brotherton e il violino di Mary Rowell (unica aggiunta saltuaria le backing vocals di Amy Allison), e sperare di fare colpo, e di fatto Work: Part One non è certo un album che finirà facilmente nelle classifiche di fine anno di qualcuno. Humara non è certo un innovatore, sia nello stile che nel modo di scrivere, e fa parte di una scuola roots-rock di vecchio stampo che si accontenta di alimentare la propria nicchia di seguaci con una produzione che fa di genuinità e sincerità il proprio valore aggiunto. Ma in questa ottica, le dieci canzoni di Work: part One (dal titolo sembra che siano solo la prima parte di un progetto più a lungo termine) funzionano bene e paiono ispirate, e questo forse potrebbe ancora bastare. Certo, un brano come Shine It Down ad esempio lascia l’idea che con una band e un arrangiamento elettrico il brano possa anche dire di più, ma l’atmosfera unplugged del disco, per quanto vecchia e risaputa, conserva il suo fascino, soprattutto perché Humara raramente è stato così ben preciso nelle parti vocali, e il lavoro alle chitarre di Brotherton appare di primo livello. A parte il lungo finale un po’ acido di Tennessee Fire (con il violino in gran spolvero), ci si culla nella normalità, tra ballate romantiche (ben tre brani con nome di donna, Caroline, Susan e Margaret) e folk-song più decise come Going Round e l’interessante Commodore Peter. Solo per amanti della vecchia arte della semplice canzone acustica.


Nicola Gervasini

giovedì 11 febbraio 2016

ALL THEM WITCHES - DYING SURFER MEETS HIS MAKES

ALL THEM WITCHES
DYING SURFER MEETS HIS MAKES
New West
***1/2
Sono band come gli All them Witches, quartetto freak proveniente da Nashville, a rendere ancora intrigante il lavoro di ricerca e studio che servirebbe a qualunque buon recensore di musica. Band difficili da catalogare, che ti spingono a farti un’idea su un pezzo e a cambiarla immediatamente al primo attacco del pezzo successivo. Sarebbe bello poter prendere Dying Surfer Meets His Makes, loro terzo album (escludendo vari EP e special releases), e fare un esperimento: ogni persona inizia ad ascoltarlo da una traccia diversa, e sulla base di una sola canzone dovrà definire il loro genere. Ne verrebbe fuori una piccola storia del rock degli ultimi vent’anni, o forse anche più antica. Call Me Star ad esempio è una dolce ballata acustica in pure stile indie-folk, tra Iron & Wine e Josè Gonzalez o mille altri, ma già sugli otto minuti di chitarre distorte e ad alto volume di El Centro potremmo stare ore a discutere se si omaggia Jason Molina o direttamente Neil Young, o magari si voleva invece ritornare al wall of sound di certo shoegaze di marca Ride o My Bloody Valentine. Ma mentre discutiamo, intanto parte il singolo Dirt Preachers, energico pezzo che potrebbe appartenere ai Pearl Jam (con tanto di video a disegni animati che ricorda un po’ quello di Do The Evolution). Ma non è finita: con This is Where it Falls Apart ci si ritrova in pieno trip psichedelico alla Jonathan Wilson, Mellowing si risolve tre minuti di evocativi arpeggi acustici, Open Passage Ways in una gotica cavalcata alla Nick Cave. Altro passaggio rumorista con lo strumentale Welcome to The Caveman Future, prima dell’ottima Talisman, pezzo di gotica americana d’altri tempi, quasi alla Grant Willard Conspiracy, che si chiude in un altro lungo trip di chitarre (Blood And Sand-Milk and Endless Winters). Fanno un po’ un pastone di tutto gli All Them Witches, peccando forse in personalità e mancando di una voce solista che ne caratterizzi pienamente il suono, prediligendo dunque l’impatto sonoro alla ricerca della canzone (ma con Talisman dimostrano di saperci fare anche in quel senso). Non cambieranno le sorti della musica e forse nemmeno il conto in banca della New West che su di loro sta puntando parecchio, ma questo album li dimostra maturi e sicuramente da scoprire .

Nicola Gervasini


martedì 9 febbraio 2016

BLUE OCTOBER - THINGS WE DO AT NIGHT (LIVE FROM TEXAS)

BLUE OCTOBER
THINGS WE DO AT NIGHT (LIVE FROM TEXAS)
Up/Down
**

Penso che in Italia si sia parlato poco o praticamente niente dei Blue October in tutti i vent’anni della loro attività, eppura la band di Houston è una consolidata sigla dell’american mainstream-rock fin dall’esordio (The Answers), uscito nel 1998. Il gruppo da sempre ruota intorno ai fratelli Justin e Jeremy Furstenfeld e al violinista classico Ryan Delahoussaye, unici membri da sempre presenti, mentre completano oggi la line-up il bassista Matt Noveskey e il chitarrista C.B. Hudson. Pur essendo da sempre catalogati come “alternative band”, non sono mai stati troppo coccolati dalla critica colta, forse per quel loro piglio spesso un po’ troppo facile e radiofonico che li ha sempre fatti passare un po’ come una versione minore dei Live. Sono una band anni 90 a tutti gli effetti infatti, anche se poi il successo vero e proprio loro lo hanno raggiunto solo con un disco del 2006 (Foiled) e una serie di singoli e brani utilizzati in vari serial e pellicole (loro la soundtrack di Saw III ad esempio). Da sempre votati comunque ad essere una band da lunghi e sfiancanti tour, con un occhio volutamente strizzato al pubblico della Dave Matthews Band (che in alcuni brani ricordano volutamente), i Blue October ci danno la possibilità di assaporare un lungo riassunto delle puntate precedenti con questo Things We Do At Night (Live From Texas), doppio cd e film in dvd che sa di punto di arrivo del loro primo ventennio di attività. A fronte di sette album in studio, la band aveva già pubblicato quattro dischi dal vivo, ma questo ha tutta l’aria di voler suonare come la loro consacrazione finale a band di culto del pubblico americano. Peccato che la grande energia, l’indubitabile perizia tecnica dei musicisti, e un sicuro know-how di tutti i trucchi per costruire una buona american-song, non fughino tutti i dubbi che da sempre li  accompagnano. Troppe soluzioni facili, colpi al cerchio (spesso giocano a sembrare gli U2 moderni) e altri alla botte (qualche reminsicenza di roots-rock anni 90 alla Del Amitri), troppi brani simili per struttura (partenza lenta e melodica, conseguente esplosione di chitarre e tastiere, ritornello comunque cantabile, assoli molto tecnici…questo più o meno il menu principale). Se negli anni novanta mentre ascoltavate gli Uncle Tupelo continuavate a rispolverare i dischi dei Toto, allora qui magari troverete un buon compromesso, altrimenti tenete buono questo live per conoscerli, ma difficilmente vi verrà voglia di approfondirli.


Nicola Gervasini

lunedì 8 febbraio 2016

Billy Gibbons & The BFG’s

L’amore-odio che la comunità di classic-rock lovers prova nei confronti di Billy Gibbons è ormai questione vecchia di almeno quarant’anni. Quando aveva 17 anni si esibì davanti ad Hendrix, che lo promosse pubblicamente come migliore promessa delle sei corde, e di fatto negli anni settanta mise a ferro e a fuoco il mondo del rock-blues con i primi quattro fondamentali dischi dei suoi ZZTop. Grande band, in seguito però trasformati in un carrozzone da circo in cui la sua chitarra, pur sempre azzeccata in ogni nota anche quando sommersa da elettronica da supermercato AOR, resta l’unico vero buon motivo per continuare a seguirli. Sorprende quindi che solo nel 2015 il nostro provi l’avventura solista con questo Perfectamundo (Concord), uscito a nome Billy Gibbons & The BFG’s anche qui più per ragioni “markettare” (BFG, ridete pure, è un marchio di sua proprietà di salse da barbecue). Ci sarebbe da neanche prenderlo in considerazione, se non fosse che in libera uscita da impegni contrattuali come ZZTop, Gibbons ha sfornato il primo disco veramente vario e fantasioso della sua seconda carriera, pieno di bizzarri esperimenti che mischiano blues, tex-mex, rock, e quel solito pizzico di produzione elettronica (purtroppo usata anche per filtrare la voce). Nulla di rivoluzionario e nessun capolavoro in vista, ma quando si diverte, il vecchio barbalunga pare ancora ricordarsi di essere stato un grande chitarrista.


Nicola Gervasini

giovedì 4 febbraio 2016

ALLEN TOUSSAINT

Dei tanti personaggi da “dietro le quinte” della storia del rock, Allen Toussaint è stato uno dei più importanti e influenti. Non era solo un artista e produttore, era uno che si è letteralmente inventato un suono e una visione musicale utile per tutti. E’ morto a 77 anni lo scorso 10 novembre a Madrid, al termine di un concerto, nello stile di un perfezionista che non avrebbe mai lasciato il pubblico a metà. Molti di voi non avranno neanche un suo disco in casa, eppure sarà facile che abbiate da qualche parte segni della sua opera, fosse anche solo la rivoluzionaria produzione della celeberrima Lady Marmalade delle Labelle, con cui costruì nel 1974 un solido ponte tra la musica di New Orleans e la disco-dance che verrà. Ma Toussaint è stato l’inventore di un inconfondibile mix di ritmo, percussioni e soprattutto fiati, di cui è stato forse il più richiesto e capace arrangiatore. Non era soul, non era funky, non era blues: il suo era un suono che oggi si riconosce essere quello ufficiale di New Orleans, e di cui hanno beneficiato una lista lunghissima di grandi artisti, da Paul Simon e Paul McCartney, fino a Elvis Costello. Non amava apparire: nel 2005 l’uragano Katrina si portò via il suo studio di registrazione, crogiolo di una lista impressionante di capolavori della musica americana, e quella fu l’occasione della sua prima apparizione televisiva in carriera, a casa David Letterman.

Nicola Gervasini

martedì 2 febbraio 2016

Francesco De Gregori - Amore e Furto

Francesco De Gregori
Amore e Furto

Ammettiamolo, alla notizia di un album di cover dylaniane da parte di Francesco De Gregori, anche al suo più fervente fan è venuto naturale commentare ironicamente che in fondo lui sono più di quarant’anni che rifà Bob Dylan. E se lui stesso ha ammesso di aver rubato spesso in casa del ladro (lo stesso Dylan è un esperto ruba-melodie, secondo la buona tradizione folk per cui il plagio non è un reato, ma il fondamento dell’arte), e comunque non nasconde una certa rispettosa sudditanza artistica, va però notato che dal punto di vista delle liriche non c’è niente di più lontano dalla verbosità del Dylan più classico del suo noto ermetismo. Per questo Amore e Furto (Caravan/Sony) desta comunque curiosità, al di là dell’ottima produzione e riuscita del progetto, perché De Gregori si è costretto a non dire tutto in poche frasi, ma si è adattato al fluire delle parole dylaniane con grande opportunità. Non è la prima volta che ci prova, e di fatto qui vengono recuperate le già note Non dirle che non è così (in cui già aveva reso alla grande un testo difficilissimo come If You See Her say Hello), e la mastodontica Via Della Povertà, scritta nel 1974 con De Andrè.  Sentendosi comunque a casa, De Gregori svolge il compito con devozione, ma anche concedendosi un auto-plauso attraverso scelte lessicali decisamente personali, e persino una lunga serie di autocitazioni che potrebbero sembrare irriverenti. Corretto il titolo dunque, ma all’amore incondizionato e al furto benemerito, aggiungerei anche una sorta di investitura all’unico autore italiano che è stato veramente capace di conciliare canzone americana e melodia nostrana, uscendone Autore con la maiuscola e non solo seguace. Ai dylaniani veri giudicare le singole versioni (I Shall Be Released ha un coro un po’ fuori luogo, e non tutti i versi dell’intraducibile Subterranean Homesick Blues hanno il ritmo giusto, mentre Sweetheart Like You gli si cuce addosso fin dai primi versi) o scoprire se esistevano titoli a lui più affini (ma lui saggiamente pesca parecchio dal repertorio più recente), agli altri un pugno di ottimi brani nella nostra lingua che un italiano, comunque, non avrebbe mai scritto così.


Nicola Gervasini

lunedì 1 febbraio 2016

BUGO

Investito da qualcuno del titolo di “il Beck italiano”, il rhodense Bugo resta uno dei più credibili esponenti della canzone italiana “indie” degli anni 2000. E Arrivano i Nostri (Carosello), EP di sei brani che rinnovano il suo tipico mondo onirico e surreale nei testi, conferma tutta la sua caparbietà nel sfuggire a gabbie di genere. Che possa accarezzare la musica melodica italiana di stampo anni settanta (Cosa ne Pensi Sergio, brano live dedicato al suo levriero, con cui ha dato vita ad una simpatica saga di video sul web), che occhieggi senza troppo nasconderlo a Lucio Battisti (Sei La Donna), o che vada di pari passo con modelli più recenti come Max Gazzè (di cui si possono trovare tracce nel pop accelerato di Nei Tuoi Sogni), o la techno-wave alla Bluevertigo in Vado Ma Non So, Bugo pare sempre trovare la melodia giusta e il ritmo delle parole adatto. Il risultato infatti viaggia in una saggia via di mezzo tra la melodica italiana più pura e l’indie italico più chiuso e con la puzza sotto il naso. Quella che gli fa confezionare la tirata title-track come una sorta di manifesto dell’alternativo a tutti costi contro la massa omologatrice, una canzone che sarebbe certamente piaciuta al giovane Vasco Rossi, che qui si troverebbe a suo agio anche nell’elenco di quotidiane stupidità elencate dal  funky-rock di Tempi Acidi. Atteggiato e altezzoso forse, ma con sostanza.
Nicola Gervasini


BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...