WALTER
SALAS HUMARA
WORK:
PART ONE
Blue Rose Records
***
La prima bella notizia
quando si parla di musicisti come Walter
Salas-Humara è sapere che ancora, dopo trent’anni di carriera, questi
personaggi dell’underground roots anni ottanta non mollano il colpo. Eppure lui
è uno di quelli che non ha assaporato il successo neppure negli anni d’oro, nel
suo caso quelli dei Silos, band che
tra alti e bassi e momenti di riflessione, non ha mai smesso di essere attiva e
pubblicare album fin dal 1985 (l’ultimo album in ordine di tempo è Florizona del 2011). Solo ogni tanto è
riuscito a salire sulla ribalta grazie alla passione di qualche fan ben
inserito negli ambienti giusti, come ad esempio quella volta che fu coinvolto
nella stesura della colonna sonora originale del fortunato serial televisivo Sex And The City. Fa dunque piacere
sapere che riesca ancora a vivere dividendosi tra l’attività di rocker è quella
di pittore (specializzato nel dipingere cani…), soprattutto perché il suo nuovo
album (il quarto come solista, live e raccolte a parte) Work: Part One lo vede tornare
in forma come autore. Qui però va fatta una raccomandazione preliminare: è
difficile infatti nel 2016 presentarsi ancora con un album registrato in trio
acustico con l’amico e produttore Richard
Brotherton e il violino di Mary Rowell (unica aggiunta saltuaria le backing
vocals di Amy Allison), e sperare di fare colpo, e di fatto Work: Part One non è certo un album che
finirà facilmente nelle classifiche di fine anno di qualcuno. Humara non è
certo un innovatore, sia nello stile che nel modo di scrivere, e fa parte di
una scuola roots-rock di vecchio stampo che si accontenta di alimentare la propria
nicchia di seguaci con una produzione che fa di genuinità e sincerità il
proprio valore aggiunto. Ma in questa ottica, le dieci canzoni di Work: part One (dal titolo sembra che
siano solo la prima parte di un progetto più a lungo termine) funzionano bene e
paiono ispirate, e questo forse potrebbe ancora bastare. Certo, un brano come Shine It Down ad esempio lascia l’idea
che con una band e un arrangiamento elettrico il brano possa anche dire di più,
ma l’atmosfera unplugged del disco, per quanto vecchia e risaputa, conserva il
suo fascino, soprattutto perché Humara raramente è stato così ben preciso nelle
parti vocali, e il lavoro alle chitarre di Brotherton appare di primo livello.
A parte il lungo finale un po’ acido di Tennessee
Fire (con il violino in gran spolvero), ci si culla nella normalità, tra
ballate romantiche (ben tre brani con nome di donna, Caroline, Susan e Margaret)
e folk-song più decise come Going Round
e l’interessante Commodore Peter. Solo
per amanti della vecchia arte della semplice canzone acustica.
Nicola Gervasini
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