martedì 13 ottobre 2009

CHUCK PROPHET - ¡Let the Freedom Ring!


18/09/2009
Rootshighway




Lo avete aspettato tanto ed eccolo finalmente: ¡Let Freedom Ring! è il disco che un po' tutti chiedevano da tempo a Chuck Prophet, diremmo quasi l'atteso seguito dell'ottimo Homemade Blood del 1996. E' tornato a casa dunque l'ex Green On Red, dopo un lungo viaggio in una sperimentazione e modernizzazione della sua musica che ha prodotto dischi difficili e controversi. E lo ha fatto nel migliore dei modi: si è scelto un produttore di sicura esperienza nel mondo roots (Greg Leisz), musicisti fidati (gli Springsteen-fans noteranno la presenza di Ernst "Boom" Carter, alla batteria, uno che ha come prima riga del lungo curriculum "è stato il batterista di Born To Run"), si è fatto un bel giro a Città del Messico e se ne è uscito col disco giusto. Rock di vecchio stampo, con il santino di Keith Richards di nuovo sul comodino come i vecchi tempi, e nel frattempo il grande vantaggio di aver imparato anche a cantare, tanto che per la prima volta in un suo disco capita che l'interpretazione possa essere migliore della canzone (Hot Talk). Ma gli album precedenti non sono passati invano, Prophet è ormai artista maturo e vanta anche un songwriting per nulla banale, e già il precedente Soap & Water aveva evidenziato quanto l'artista fosse migliore dell'opera d'arte. E la sensazione è che quanto presente in questo suo nono sforzo solista non sia ancora il suo zenith. Quello che è certo è che Prophet aveva bisogno di un disco secco e diretto come questo, con brani come Sonny Liston's Blues, Where The Hell Is Henry o la stessa Let Freedom Ring che tornano a rinverdire una tradizione di rauco rock stradaiolo alla quale siamo ovviamente legati con il sangue. Aveva anche bisogno di ritrovare una scrittura semplice ma incisiva come quella delle bellissime ballate qui presenti (What Can A Mother Do, Barely Exist o Love Won't Keep Us Apart), che quasi riportano alla memoria i momenti migliori dell'indimenticato Balinese Dancer, o riaffilare la propria ferocia critica in American Man, un brano che potrebbe appartenere allo Ian Hunter degli ultimi tempi. Oppure semplicemente aveva necessità di giocare un po' con gli stili e non più solo con le batterie elettroniche, sparando una Good Time Crowd che usa riff e cori da rockabilly anni 50, ma appare paradossalmente come uno degli episodi più moderni. Presentando il disco sul suo sito, Prophet ha scherzosamente scritto che questo è il disco di "Chuck Prophet 3.0.", usando una numerazione tipica delle versioni dei software, ad intendere che da qui in poi si apre la sua terza era artistica. Noi siamo felici che certi bachi del passato siano stati corretti, ora il programma gira a meraviglia infatti, ma per la versione 3.1. avremmo alcune richieste di nuove funzionalità che lo portino a realizzare un disco che ne faccia finalmente riconoscere lo status di artista di primissimo livello anche al di fuori della cerchia di nostalgici del roots-rock. Manca davvero poco in fondo. (Nicola Gervasini)

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