L’altezzosa signora della canzone d’autore Natalie Merchant
non concedeva un disco di originali dal 2001, anno in cui si consacrò come
autrice e interprete di primissimo livello. Nel frattempo l’attesa era stata
ingannata con riusciti progetti edificati sulle salde fondamenta di traditionals
e poesie sull’infanzia, ma è sui dischi autografi che si misura la statura di
una artista. Intitolato semplicemente Natalie Merchant (Nonesuch), quasi a
voler sottolineare una sorta di ripartenza dopo un lungo blocco (di ispirazione,
o semplicemente di energie), il disco la conferma come una delle poche
interpreti in grado di trasformare in oro anche il ferro più arrugginito solo
con la propria voce. La ricetta è nota e prevede il solito mix di folk (Texas), spirituals (Go Down Moses), ardite orchestrazioni (Lulu), eteree melodie (Seven
Deadly Sins) e qualche concessione al pop più canticchiabile (Ladybird). Il livello eccelso di Motherland e Tigerlily è lontano, complice anche una certa autoindulgenza ed una
eccessiva fiducia nel potere della propria voce rispetto ad una scrittura non
sempre brillante, ma la lezione di stile per le nuove leve c’è tutta. Magari
anche solo per il fatto che prima di essere ammessa nella serie A, lei negli
anni 80 si è fatta una lunga e doverosa gavetta da outsider con i 10.000
Maniacs, per cui si può accettare che ora si conceda un disco che fa un po’ di
sano catenaccio per mantenere il risultato.
Nicola Gervasini
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