venerdì 9 novembre 2018

COWBOY JUNKIES

Cowboy Junkies 
All that Reckoning
[
Latent/ Proper 
2018]
cowboyjunkies.com
 File Under: canadesi erranti

di Nicola Gervasini (18/07/2018)
A voler essere precisi erano ben unidic anni che i Cowboy Junkies non pubblicavano un nuovo album, fin dai tempi del controverso e non sempre ben accolto At the End of The Paths Taken. In mezzo però ci sono stati i quattro capitoli delle Nomad Series (cinque, se si comprende anche il volume "Extras"), apparentemente un progetto "only for fans" pensato per svuotare magazzini ingolfati di inediti sparsi in più di vent'anni di attività, a conti fatti l'occasione per ascoltare alcune delle cose migliori sentite dal loro marchio dai tempi di Lay It Down (1996). Infatti, sembra quasi che i fratelli Timmins sentano una sorta di obbligo morale e piscologico a non osare troppo quando si tratta di un nuovo album, relegando tutto il coraggio e la sperimentazione ai soli progetti speciali.

Non è un caso quindi che anche l'atteso All That Reckoning sembri in qualche modo soffrire degli stessi difetti di album come One Soul Now (2004) o Miles from Our Home (1998), e cioè un eccessivo formalismo, e una caparbia coerenza a quel credo stilistico annunciato al mondo ai tempi del loro indiscusso capolavoro The Trinity Session. Fatta questa doverosa premessa, resta però il fatto che la band canadese sia una delle meglio sopravvissute ai fasti musicali della scena "alternative-roots" degli anni 90, e All That Reckoning lo dimostra in pieno, pur nel suo evidente limite di essere "solo un tipico album dei Cowboy Junkies".

Brani lenti, appoggiati al solito sulla voce sognante e senza sbavature di Margot Timmins e su quell'amore per l'essenzialità del fratello Michael, la cui chitarra ovviamente segna il suono senza mai prendersi la scena, quasi costringendosi a nascondere la propria personalità. Ad esempio in When We Arrive, dove il tono drammatico di Margot viene rispettato anche fin troppo dagli interventi della chitarra di Michael, o già nella prima title-track, che aveva aperto senza troppi clamori il disco (molto meglio la più rumorosa seconda parte che chiude le danze). Bisogna aspettare Wooden Stairs per assaporare l'indole un po' psichedelica della band, grazie all'intervento di una minacciosa viola, e la successiva Sing Me A Song per sperimentare l'elettricità della sei corde di casa. Pezzi come Mountain Stream rallentano però il corso delle emozioni, secondo uno schema fisso canzone rilassata/canzone tesa (ad esempio la successiva Missing Children) che alla fine risulta un po' prevedibile.

Il risultato è chiaro: i Cowboy Junkies fanno benissimo quello che già conoscevamo come il loro suono migliore, ma se cercate uno scatto in avanti verso una nuova fase, non è All That Reckoning che lo cerca. Anzi, suona come un possibile seguito di Pale Sun Crescent Moon, che è un album di 26 anni fa, ed è davvero come se non fossero passati. A voi decidere se questo sia un bene, un male, o semplicemente la natura delle cose. 

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