STEVIE JACKSON
(I CAN’T GET NO)
STEVIE JACKSON
Banchory
***1/2
Che ci sia anche da ridere lo si capisce dal titolo rollingstoniano dell’album, (I Can’t Get No) Stevie Jackson, quasi
una supplica a non prendere troppo sul serio questo esordio del chitarrista dei
Belle & Sebastian. Personaggio schivo e da sempre poco al centro di quell’attenzione
che la band riuscì ad attirare a cavallo degli anni 2000, Stevie Jackson è uno dei pochi chitarristi del mondo indie ad avere
lasciato un’impronta stilistica ben definita, ad essersi creato un suono
riconoscibile e a lui riconducibile, caratterizzato dall’uso di svariati
effetti. Mister Riverbero lo chiamavano ai tempi, e forse oggi questa sua prima
fatica arriva anche per scrollarsi di dosso il nomignolo. Il disco è infatti
una piccola galleria di scherzi ed esercizi di stile, pop-songs per tutti i
gusti che il nostro ama presentare con un piccolo scritto di presentazione che
ne racconta la genesi. Quanto basta per apprezzare l’umorismo decisamente
british nel giustificare gli evidenti omaggi sparsi qua e là, dall’Elton John
prima maniera echeggiato nell’iniziale Pure
Of Heart agli strampalati riferimenti cinematografici sciorinati in Just, Just, So To The Point
(brillantissima pop-song anni 70 dedicata a John Houston e famiglia) o Kurosawa (dedicata al maestro Ozu in
verità, tanto per confondere le idee). Beatles presenti ovunque, ma anche tesori
pop alla Kinks (Where Do All The Good
Girls Go?), sgangherati schizzi acustici alla Jonathan Richman (Press Send, sketch sulla comunicazione
via e-mail e social networks fra due innamorati) oppure orchestrazioni ardite alla
Electric Light Orchestra (Telephone Song).
Jackson se la cava benissimo sia con le parole che con i diversi registri
adottati, con risultati particolarmente godibili nel garage-pop di Try Me (sembra quasi uno degli scherzi
del Ben Vaughn anni ottanta), in una Dead
Man’s Fall che canzona i cantautori indie con coretti alla Beach Boys o
quando in Bird’s Eye View cerca l’
acoustic-ballad allucinata alla Robyn Hitchcock, finendo per trovare una
perfetta imitazione di Julian Cope. Non poteva mancare Bowie nel gioco dei
rimandi, perfettamente riconoscibile nelle trame della complessa Man of God, un brano che Jackson dice
essere nato per cercare di sedurre una donna che finirà invece annoiata da una
serie di discussioni sulle b-sides dei Beatles. Vita da nerd e malato di
musicofilia quella descritta dai solchi di Stevie Jackson, che ad un certo
punto nelle note d Try Me si rende
conto che certi testi da love-song adolescenziale mal si prestano alla sua
condizione di ultratrentenne, ma che non riesce davvero a farne a meno. La
stessa sindrome da Peter Pan che rende questo disco un piccolo gioiellino da
non perdere.
Nicola Gervasini
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