RYAT
TOTEM
Brainfeeder
***
Più che Totem,
poteva anche intitolarsi semplicemente Debut questa terza opera di Ryat, una fascinosa ragazza di Los
Angeles (Christina è il suo nome di battesimo) che evidentemente non ha ancora
tolto dal proprio lettore l’opera omnia di Bjork. Un debutto su un etichetta di
settore (la Brainfeeder) che dovrebbe garantirle distribuzione migliore negli
ambienti più adatti alla sua musica (soprattutto quelli inglesi), ma
soprattutto un opera matura e decisamente di avanguardia che unisce
elettronica, poesia e persino spunti classici, per un risultato affascinante e
al tempo stesso stordente che dovrebbe piacere soprattutto a chi negli ultimi anni
ha apprezzato l’opera di Joanna Newsom. Il primo elemento che va notato in
questi brani dalla struttura decisamente minimale è l’utilizzo della voce,
vista non come elemento narrante ma come strumento fondamentale nella creazione
del sound, mezzo per trasportare le poche e stringate parole dei brani che
parlano di mitologia dei nativi americani, unione di anima e natura, ritorno
alle radici. Si rasenta la new age in alcuni momenti, ma non si scende mai
sotto il pericoloso confine della maniera, e alla fine, seppure non sia musica
per tutti i palati (astenersi esclusivisti del suono roots e cultori delle
chitarre senza se e senza ma), il disco trova una sua perfetta collocazione nei
momenti più riflessivi della nostra esistenza. In ogni caso Ryat si prodiga in
ben studiati campionamenti ottenuti con una tastiera FX, e se quando abbozza
qualche ritmica sincopata in stile hip hop (ma non ci arriva, tranquilli…) il
risultato pare poco originale, quando come in Hummingbird ricama intricate trame di archi sintetizzati riesce a
captare l’attenzione. Totem è dunque opera affascinante e da ascoltare in modo
unitario, ma al tempo stesso urticante se non siete sintonizzati sulla sua
lunghezza d’onda. E fa anche un po’ il punto su dove sia arrivata la musica
indipendente a livello di sperimentazione, e il merito principale di Ryat, al
di là dei debiti già dichiarati, è quello comunque di riuscire ad esprimere una
singolare personalità anche nei brani più ostici e azzardati come Seahorse o Footless o nei passaggi dove si sente che c’è voglia di strabiliare.
Se decidete di dare una chance a questo disco mettetevi in testa però che non
basta un fugace ascolto da uno streaming nel web, ma serve uno stereo come si
deve, in una stanza d’ascolto come si deve e una predisposizione d’animo adatta.
Per tutto il resto resta sempre il rock.
Nicola Gervasini
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