Beirut – A study of Losses
2024 Pompeii Recording Co & Beirut
Nel gran marasma di uscite
discografiche moderne si finisce spesso ad essere incuriositi dal nome nuovo, e
magari si danno inavvertitamente per scontati artisti ormai consolidati. E così
Hadsel, il disco del 2023 di Zach Condon, alias Beirut, è stato secondo
me ingiustamente ignorato da tante classifiche di fine anno, più per abbondanza
di proposte, che per reali demeriti di un album nato nella vita solitaria della
Norvegia.
Magari troverà più eco questo suo
nuovo sforzo altrettanto interessante, A Study Of Losses, che più che nuovo
album potremmo considerare un side-project sperimentale nato su commissione. L’occasione
gli è stata data da un trio di acrobati e ballerini svedesi, I Kompani Giraff,
che gli hanno chiesto di musicare una loro performance dallo stesso titolo, basando
i testi sul bestseller dell’autrice tedesca Judith Schalansky Verzeichnis Einiger
Verluste (tradotto in inglese come An Inventory of Losses, da cui l’edizione
italiana Inventario di Alcune Cose Perdute edito da Nottetempo nel 2020). Il
libro è una raccolta di dodici racconti, ognuno dedicato a qualcosa che si è
ormai irrimediabilmente perso, sia esso un animale ormai estinto, o un’ isola
sommersa dall’oceano (Tuanaki Atoll), fino ai versi perduti delle poesie di
Saffo (Sappho’s Poems).
Registrato tra la Germania e la
Norvegia, A Study Of Losses tiene fede al proprio titolo offrendo 18 bozzetti
di sperimentazione di suoni tra elettronica, chitarre acustiche e archi, che
probabilmente andrebbe gustata in parallelo alle performance circensi del trio
di acrobati, ma che vive benissimo anche come opera a sé stante. Già Forest
Encyclopedia mostra subito tutte le note e ben apprezzate doti vocali e
melodiche del padrone di casa, anche se il disco alterna strumentali e brani
cantati, e tra i secondi si mettono in evidenza Villa Sacchetti con la sua
melodia quasi medioevale, dedicata alla villa romana progettata da Pietro da
Cortona per i marchesi Sacchetti, ormai distrutta e ridotta ad un ammasso di
ruderi lasciati all’incuria, ma immortalata dallo splendido dipinto di Gaspar
van Wittel.
Con la quasi samba elettronica di
Garbo's Face si passa a piangere la star scomparsa, che si era ritirata dalle
scene per non mostrarsi invecchiata (“I know your hair goes grey, I see the
color fade ,I see the time around your eyes” canta Beirut). Il clima generale è
ovviamente malinconico e nebbioso, anche se Guericke's Unicorn si avventura in un
synth-pop abbastanza scanzonato per ricordare l’Unicorno di Magdeburgo, animale
di cui abbiamo solo un improbabile fossile, e la cui effettiva esistenza non è
mai stata verificata o certificata, storia sicuramente più fantasiosa di quella
cantata in The Caspian Tiger su una tigre effettivamente esistita. A parte gli
archi e qualche intervento di basso e batteria, Beirut suona tutto in solitaria,
aiutandosi con vari tipi di chitarre e tastiere, e con sovraregistrazioni vocali
per ottenere anche effetti corali suggestivi come quelli di Ghost Train, o
brani più ritmati come Mani’s 10 Books, dedicato al solo favoleggiato decimo libro
del profeta fondatore del manicheismo, mentre Moon Voyager addirittura termina
con una sezione fiati mariachi, pezzo che anticipa la chiusura con due brani
dedicati ai mari lunari Mare Nectaris e Mare Tranquillitatis. Sforzo artistico
notevole quello di Beirut, per un risultato magari non per tutti i palati, ma
in ogni caso encomiabile.
VOTO: 7,5
Nicola Gervasini
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