lunedì 7 febbraio 2011

FERN KNIGHT - Castings


File under: “musica per streghe e alchimisti”. Connettetevi al loro sito e sarete subito avvertiti: con i Fern Knight si entra nell’immaginario fantastico delle tradizioni nord-europee, un mondo fatto di folk celtico tradizionale e nuove culture del fantasy degli anni 2000. Siete avvertiti anche perché le scritte in gotico della copertina non lasciano dubbi, e ne avrete la certezza dopo le prime note di From The 0 to 00, titolo che già in sé sciorina simbolismi che necessitano approfondimenti che vanno ben al di là del passaggio di un cd in uno stereo. Castings, quarta opera di questo quartetto che già da qualche anno fa parlare di sé nel mondo della musica indipendente, si presenta con una chiara intenzione di estremizzare ancor di più l’elemento storico di tutta la proposta musicale, come sempre partorita dalla vivida mente di Margaret Ayre, sorta di alter ego per puristi di Joanna Newsom, voce angelica (fino ad un certo punto, in alcuni casi più che celestiale pare inquietante, come se l’angelo potesse improvvisamente trasformarsi in un orrida arpia) e violoncello magico sempre pronto. La band è completata dal polistrumentista Jesse Sparhawk (basso, batteria, chitarra elettrica, arpa, dalle sue mani passa di tutto), Jim Ayre alla chitarra e percussioni varie (e produttore del disco) e dall’omnipresente violino di James Wolf. Loro fanno parte di quell’ondata di nuovi fanatici del mondo folk britannico esploso negli stati Uniti (sono di Philadelphia), un movimento che ha negli Espers e nei Vetiver i nomi forse più importanti e più digeribili anche dai palati meno avvezzi al genere. Castings invece estremizza molto l’aspetto medievale della loro musica, con innesti di progressive inglese evidenti in molti brani (Pentacles, Cups+Wands), fino al culmine rappresentato da una versione della celeberrima (e pur sempre meravigliosa) Epitaph dei King Crimson, capolavoro che la Ayre s’impegna a rendere irriconoscibile, pur non destrutturandone la bellissima melodia di base. E’ forse l’esempio più chiaro per capire un disco che potrebbe suonare come un album dei Black Mountain depurato degli elementi metal della band di Vancouver e immerso in un mare di vinili del Canterbury Sound. Il risultato affascina e stordisce al tempo stesso, addentrarsi nelle spire di questi nove brani è impresa che solo i cavalieri del suono britannico allenati e di grande esperienza possono fare, ma se riuscirete nell’impresa, la ricompensa, come nelle migliore saghe medievali, c’è sempre per tutti.

Nicola Gervasini

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