09/02/2009
Rootshighway
VOTO: 6
Quello di abbandonare il mondo del pop e dell'elettronica per trasformarsi in artista folk o country sembra essere diventata una nuova moda. Dopo la mossa azzardata dal francese Solal dei Gotan Project con le sue Moonshine Sessions (riuscita in fondo), ci prova anche Kelli Ali a rivestirsi (o a vestirsi proprio, visto che nella copertina del suo primo album solista appariva in provocante topless…) da fatina brit-folk, sfruttando la sua voce eterea e delicata. Protagonista della stagione d'oro del trip-hop di Birmingham negli anni '90 con gli Sneaker Pimps (si chiamava Kelli Dayton ai tempi), la Ali aveva tentato neanche tanto nascostamente un approdo al mondo del pop mainstream con l'album Tigermouth del 2003 (che vedeva la curiosa collaborazione del batterista dei Doors John Densmore) e con un tour come spalla dei Garbage, non prima di aver duettato in un singolo di funky-rap con l'ex bassista dei Parlamient e Funkadelic Bootsy Collins, e partecipato al disco di remix in chiave hip hop/trip hop dei Limp Bizkit. Mondi lontani, anzi lontanissimi da questo Rocking Horse, un terzo album dove la Ali si butta in una terra fatta di nenie acustiche, violini suadenti, flauti e glockenspiel a perdere. Potremmo tirare in ballo la Mezzanine dei Massive Attack, eventualmente rifatta con base tradizionale e senza ombra di elettronica, per dare un idea sulla carta del contenuto di questo disco, e sarebbe anche un paragone del tutto prestigioso, se non fosse che non tutti i brani qui contenuti possono competere a quei livelli. La Ali, va detto, sorprende positivamente, sia perché dimostra di avere nel sangue il suono tradizionale della sua terra, sia perché tira fuori dal cilindro anche delle canzoni di buon spessore. Nel complesso il disco pecca di eccessi di romanticismo e vezzi barocchi, e di una formalità manieristica fin troppo rigida, rischiando spesso di deragliare verso le leziosità new age alla Enya (ma non raggiungendole mai, per nostra e sua fortuna). Non convincono appieno i brani più riflessivi, come la piano-song Urique o la faticosa September Sky, ma ad esempio proprio tra questi due momenti deboli si trova la splendida title-track, brano teso e strutturalmente complesso, con un coinvolgente tappeto di distorsioni e archi minacciosi degno del Nick Cave più ispirato. Momenti dunque, non facilissimi da riconoscere perché il disco è lungo e tende nel suo insieme ad appiattire il tutto in un'unica ninna nanna. Le canzoni sono nate durante un lungo viaggio fatto da Ali tra la California e il Messico, luoghi ideali per ritrovare sé stessa, e l'idea della fuga e del viaggio è infatti il motivo portante anche di molti testi. Credibile e tutto sommato piacevole questa svolta drastica della sua carriera, anche se ora la ragazza cammina su terreni dove la concorrenza è ben più agguerrita e autorevole, e per avere anche il nostro plauso ci vuole molto di più. (Nicola Gervasini)
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