sabato 21 febbraio 2009

OLLABELLE - Before This Time


28/01/2009
Rootshighway

VOTO: 7,5



Il vero fan di un artista è quello che non si fa mai sorprendere dal nuovo disco del proprio beniamino perché ne ha seguito passo a passo le scorribande live, vivendone così in diretta i progressi e i cambi di direzione. Sarà dunque l'impossibilità di concedere tanta attenzione a tutti la ragione per cui l'ascolto di Before This Time degli Ollabelle ci coglie leggermente impreparati, colpa del comprensibile pregiudizio verso un disco live uscito dopo solo due dischi in studio, un'operazione che sa inevitabilmente di band che tergiversa in attesa di tempi creativi migliori. Invece Before This Time è uno di quei dischi live che fa storia a sé, o se preferite, è già di per sé il vero e proprio terzo album degli Ollabelle. Non tanto perché la scaletta offra qualcosa di particolarmente nuovo: quattro brani (Before This Time, John The Revelator, Elijah Rock e Soul Of A Man) vengono dal primo disco del 2004, mentre due (Troubles Of The World e See Line Woman) dall'acclamato Riverside Battle Songs del 2006, e più che altro la band continua a basare il proprio repertorio principalmente su rivisitazioni di traditionals o brani altrui.

Ma Before This Time porta nei nostri stereo una jam che amalgama a perfezione folk, blues, gospel, bluegrass e persino un tocco di jazz, con una tendenza a destrutturare, ad improvvisare, a lasciare liberi di movimento gli straordinari musicisti che compongono il gruppo (le belle voci e chitarre di Fiona McBain e Amy Helm, il bassista Byron Isaacs, il batterista Tony Leone e soprattutto le splendide tastiere di Glenn Patscha). C'è pure la chitarra di Larry Campbell (già produttore del loro secondo disco) in alcuni brani, e c'è anche una serie di ospiti mai di contorno ai fiati. I brani già in repertorio di questo combo newyorkese vivono dunque una nuova vita, trovano un ritmo insolito che va a piazzarsi tra una jam mattutina con i JJ Grey & Mofro, un tè delle cinque preso con i Cowboy Junkies e una nottata passata sui dischi dei Grateful Dead. E proprio quest'ultimi rivivono in una Brokedown Palace pienamente votata al gospel, mentre la dolce Amy non nasconde le proprie origini trascinando la band nel coro di Ain't No More Caine, brano che papà Levon masticava nelle cantine di Big Pink quando lei non era ancora nata.

Il loro grandissimo merito è quello di strabiliare con materiale scontatamente orecchiabile ai più come Saints, che altro non è che When The Saints Go Marchin'In infarcita di mille altre citazioni, o di pescare brani poco noti come Looked Down The Line di Sister Rosetta Thorpe e farli volare in alto. Il limite resta invece quell'impressione che abbiano molto da dare e poco da dire. Poco male, di band capaci di creare opere a sé stanti su un palco ne sono rimaste davvero poche, a scrivere belle canzoni ci pensino pure i mille songwriters che invadono le strade americane, noi teniamoci intanto ben stretti musicisti di tal livello e sensibilità, fintanto che se ne fanno ancora.
(Nicola Gervasini)

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