Aaron
Frazer - Introducing...
Dead Oceans,
2021.
Dura la vita dei batteristi, da
sempre relegati nelle retrovie della ribalta, e considerati spesso braccio ma
non mente di un processo artistico, Le eccezioni nella storia ovviamente si
sprecano, ma ogni volta c’è sempre una certa immotivata sorpresa quando si scopre
che chi batte le pelli in una band tutto ritmo e soul come ad esempio gli Indications,
abituale backing-band di Durand Jones, possa esordire con un proprio disco e
dimostrare doti da frontman navigato. È questa la storia deI newyorkese Aaron
Frazer e del suo Introducing... che sta riportando in questi primissimi giorni
del 2021 il soul di nuovo al centro della discussione musicale. Di fatto il
buon Frazer arriva ormai ultimo, e pure parecchio in ritardo, rispetto al
revival innescato dalla scena New Soul degli anni zero, eppure ogni volta c’è
sempre da meravigliarsi come certe lezioni di grandi nomi come Marvin Gaye o
Curtis Mayfield siano davvero dure a morire, dopo che gli anni ottanta e
novanta parevano averle messe in crisi e definitivamente archiviate. E per
Frazer vale un discorso che torna poi buono per tutti, se cercate ancora l’uomo
che possa ancora portare avanti il discorso della black music continuate a
rivolgervi altrove, perché il suo retro-sound è puro diletto per vecchi cultori
della materia, o, se vogliamo, per giovani che si sono persi molte puntate del
passato e magari possono ripartire da qui e andare a ritroso per recuperare
tutte le lezioni. E chi meglio di Dan Auerbach dei Black Keys nelle sue vesti
di produttore poteva cucirgli addosso un sound fatto di soul levigato e fiati
sixties. Con riferimenti ogni volta chiari e precisi, nonostante lui giuri che
non era sua intenzione fare un disco ancorato al passato. Ma lo smentiscono una
You Don't Wanna Be My Baby che riparte là dove Isaac Hayes aveva finito con la
cover di Walk on By, una If I Got It (Your Love Brought It) che è puro
Mayfield-pensiero, mentre altrove in affiorano chitarre più bluesy che lo
portano in zona primo Lenny Kravitz, e così via. Gli danno manforte i Memphis
Boys, riuniti a Nashville da Dan Auerbach, gente che era lì a suonare quando
Aretha Franklin si sentiva una donna normale e Dusty Springfield flirtava con
il figlio del predicatore, per cui capite già bene lo spirito del disco, che
segue poi la linea di alternanza tra ballate come Have Mercy, e momenti più
movimentati come Ride with Me o Done Lyin’. Insomma, un bigino sospeso tra Stax
e Motown che Frazer dimostra di gestire al meglio quasi fosse un veterano,
mettendoci se non altro la passione di chi segue con attenzione insegnamenti
altrui. Potrebbe essere magari solo il primo seme di un grande albero, come lo
fu il timido ma già significativo esordio del 2012 di Michael Kiwanuka (Home
Again), preludio ad uno sviluppo di idee che a questo punto attendiamo con
giustificate aspettative alte.
VOTO: 7,5
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