The Boxmasters Speck [Keentone Records/ Goodfellas 2019] theboxmasters.com File Under: Billy Bob McCartney di Nicola Gervasini (31/07/2019) |
Se leggete queste pagine voglio dare per scontata la vostra conoscenza di Billy Bob Thornton, sia come attore (Babbo Bastardo, la serie Fargo, i film con i fratelli Coen…), che come uomo da bla,bla,bla mondano (file under: Angelina Jolie), ma ancor più ovviamente come cantante e autore a suo nome di quattro album di discreto dark-country-roots, pubblicati tra il 2001 e il 2007 (Private Radio, The Edge of the World, Hobo e Beautiful Door, forse il migliore del lotto). Sono passati 12 anni ormai, e Thornton non sembra voler tornare su quei passi, visto che poi quegli album gli portarono ben poco in termini di notorietà. La sua carriera musicale invece in USA ha avuto una impennata con la nascita dei Boxmasters, band creata con J.D. Andrew (il terzo ora è Teddy Andreadis) di cui ci siamo occupati poco, perché i ben 8 album pubblicati in 10 anni rappresentano quanto di più banale e scontato la musica americana possa offrire oggigiorno, album natalizi compresi.
Ma il genere negli USA resta uno dei pochi per cui valga la pena muovere una industria discografica, per cui buon per lui che ha avuto la possibilità di farsi produrre un album nientemeno che da Geoff Emerick, storico tecnico del suono dei Beatles, e, non scordiamolo, anche produttore di capolavori come Imperial Bedroom di Elvis Costello. Basta dunque questo per parlarvi del nono album dei Boxmasters, intitolato Speck? No teoricamente, ma fin dalla partenza di una I Wanna Go Where You Go che pare uno dei tipici prodotti di Jeff Lynne, sospesa a metà tra Beatles e Tom Petty, si capisce che qui si torna a riprendere il discorso lasciato interrotto nel 2007. Tutto sa di Beatles ovviamente, ma anche spazio a belle ballate urbane come Let The Bleeding Pray e stramberie roots per nulla prevedibili come la marcia circense contrappuntata dal trombone di Shut The Devil Up. Certo, qualcosa è cambiato negli ultimi dodici anni, prima di tutto la voce, che si è fatta meno profonda e un po’ più stridula, e questo è un po’ un peccato, perché ai tempi sarebbe bastato il suo timbro basso a far stare in piedi un brano davvero elementare come Here She Comes, mentre oggi ne esce solo un power-pop un po’ sgraziato che fa rimpiangere tanto il miglior Freedy Johnston.
Pecche di un artista che perfetto non lo è mai stato, né tanto meno autore di primo livello, ma che qui perlomeno torna ad offrire qualche buon numero di un roots rock oldstyle, come Anymore, gradevoli leggerezze pop al mandolino come Day’s Gone, o brani che paiono rubati a Elliott Murphy come Watchin’ The Radio. Il disco si chiude con alcuni scanzonati folk-pop come Someday e Square e una title-track che alza decisamente l’asticella qualitativa. Speck non è certo uno dei dischi più importanti dell’anno, ma perlomeno rimette in carreggiata un artista per cui non si può non provare una certa simpatia, e finisce per essere anche un degno commiato per Geoff Emerick, morto lo scorso ottobre prima di poter vedere realizzato questo suo ultimo progetto.
Ma il genere negli USA resta uno dei pochi per cui valga la pena muovere una industria discografica, per cui buon per lui che ha avuto la possibilità di farsi produrre un album nientemeno che da Geoff Emerick, storico tecnico del suono dei Beatles, e, non scordiamolo, anche produttore di capolavori come Imperial Bedroom di Elvis Costello. Basta dunque questo per parlarvi del nono album dei Boxmasters, intitolato Speck? No teoricamente, ma fin dalla partenza di una I Wanna Go Where You Go che pare uno dei tipici prodotti di Jeff Lynne, sospesa a metà tra Beatles e Tom Petty, si capisce che qui si torna a riprendere il discorso lasciato interrotto nel 2007. Tutto sa di Beatles ovviamente, ma anche spazio a belle ballate urbane come Let The Bleeding Pray e stramberie roots per nulla prevedibili come la marcia circense contrappuntata dal trombone di Shut The Devil Up. Certo, qualcosa è cambiato negli ultimi dodici anni, prima di tutto la voce, che si è fatta meno profonda e un po’ più stridula, e questo è un po’ un peccato, perché ai tempi sarebbe bastato il suo timbro basso a far stare in piedi un brano davvero elementare come Here She Comes, mentre oggi ne esce solo un power-pop un po’ sgraziato che fa rimpiangere tanto il miglior Freedy Johnston.
Pecche di un artista che perfetto non lo è mai stato, né tanto meno autore di primo livello, ma che qui perlomeno torna ad offrire qualche buon numero di un roots rock oldstyle, come Anymore, gradevoli leggerezze pop al mandolino come Day’s Gone, o brani che paiono rubati a Elliott Murphy come Watchin’ The Radio. Il disco si chiude con alcuni scanzonati folk-pop come Someday e Square e una title-track che alza decisamente l’asticella qualitativa. Speck non è certo uno dei dischi più importanti dell’anno, ma perlomeno rimette in carreggiata un artista per cui non si può non provare una certa simpatia, e finisce per essere anche un degno commiato per Geoff Emerick, morto lo scorso ottobre prima di poter vedere realizzato questo suo ultimo progetto.
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