Walking On The Moon
Se Ludovico Ariosto sulla Luna ci
mandò il paladino Astolfo a cercare le ampolle del senno dell’Orlando Furioso, Neil
Armstrong il 20 luglio del 1969 ci trovò invece solo pietre e sabbia, e il suo
primo grande passo servì sostanzialmente a piantare una bandiera. Un vero choc
per la fervida fantasia degli autori musicali, che quella sera persero un
romantico punto di riferimento di tante canzoni. Per questo dopo il 1969 non
uscirono più una Fly Me To The Moon cantata
da un Frank Sinatra che chiedeva alla propria compagna di farlo volare fin
lassù con i baci, e neppure un nuovo standard come Blue Moon (era il 1934), dove si sospirava alla Luna per consolare
le proprie tristezze. Ci aveva invece visto giusto quella vecchia canzone
rockabilly del 1959 di Jimmy Stewart, Rock
on the Moon, che si immaginava la Luna come una grande sala da ballo in cui
scatenarsi liberi da ogni condizionamento. Una canzonetta che fu riproposta nel
1980 dagli irriverenti Cramps, con tutta l’ironia di un’epoca post-punk in cui
i viaggi lunari erano già un lontano ricordo, per cui tanto valeva riderci su. L’anno
prima Sting scrisse Walking On The Moon
per i suoi Police, ma a leggere bene tra le righe si trattava della camminata
di un ubriaco nella propria stanza d’albergo, non certo di una missione eroica
di una nuova navicella Apollo.
Nel novembre del 1969 i Byrds pubblicarono
un album, The Ballad Of Easy Rider,
che iniziava col brano che faceva da colonna sonora al viaggio in moto di
Dennis Hopper e Peter Fonda, ma finiva con la cover di un pezzo del
country-singer Zeke Manners che si intitolava Armstrong, Aldrin and Collins, unica esaltazione musicale
dell’impresa avvenuta pochi mesi prima, con tanto di registrazione originale
delle voci della Nasa. Senza volerlo furono testimoni di due tragitti umani,
entrambi portatori di un desiderio di un diverso futuro, ma voluti da due
generazioni diverse. I giovani della generazione-Woodstock (il festival si tenne
tre settimane dopo l’impresa dell’Apollo 11) infatti non sembravano credere
troppo alla Luna come luogo del futuro, se è vero che la musica di quegli anni
cercava una fuga dalla realtà terrena con la mente e non con una navicella
spaziale. Dopo il 1969 fu infatti il viaggio interstellare, e non più la Luna,
a essere di ispirazione. Syd Barrett fu uno
dei primi che intuì che il parallelo tra il viaggio nello spazio e quello offerto
dalle droghe costituiva un interessante punto di partenza per sperimentare
nuovi suoni, con brani come Interstellar
Overdrive e Astronomy Domine
presenti nel primo album dei Pink Floyd del 1967. Ma fu David Bowie che
capitalizzò la notizia dell’allunaggio, connettendola all’immaginario collettivo
creato da Stanley Kubrick con il suo 2001:
Odissea Nello Spazio con il suggestivo video promozionale del singolo Space Oddity. Creò un personaggio per
l’occasione, un Major Tom che si perde nello spazio constatando la propria
piena solitudine, in un brano tutt’altro che trionfale che fu registrato un
mese esatto prima della grande impresa, in verità citando indirettamente le
parole di Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio. Il personaggio ritornò, ormai abbandonato a
sé stesso e dipendente dalle droghe, in un'altra sua canzone, Ashes To Ashes, e siamo tornati ancora
al 1980 e alla fine dell’era dei sogni spaziali.
Nel 1971 quel suo alter-ego si era
invece trasformato in un uomo di successo (Ziggy Stardust), talmente famoso da
sembrare un alieno, che proprio mentre la Nasa organizzava l’ultimo viaggio
sulla luna con l’Apollo 17, si chiedeva già se poi davvero ci fosse vita su
Marte (Life On Mars?) e si
accompagnava con dei ragni provenienti da quel pianeta (la sua band erano gli Spiders From Mars). Qualche anno dopo il
regista Nicola Roeg scelse significativamente proprio Bowie per impersonare,
nel film L'uomo che cadde sulla Terra,
un alieno che fa il viaggio inverso, atterrando sulla terra per cercare risorse
e speranze per salvare il suo pianeta.
A quel punto era comunque Marte, e
non la Luna, a essere diventato il nuovo sogno a cui ispirarsi. Come quello che
il Rocket Man di Elton John e Bernie
Taupin (uscita sempre nel 1972, con il sottotitolo di I Think It's Going to Be a Long, Long Time) deve scegliere di
seguire suo malgrado, sacrificando la famiglia e la propria vita sulla terra.
Una canzone che curiosamente descrive una scena molto simile a quella vista nel
film First Man - Il Primo Uomo di Damien
Chazelle, con un Ryan Gosling/Neil Armstrong combattuto tra responsabilità
familiari e senso del dovere per la missione da compiere, ma diventata invece
il simbolo della rockstar pronta a sacrificare tutto per il successo, tanto che
Dexter Fletcher ha intitolato così il biopic appena uscito nelle sale (seppur
unendo i due termini in un unico Rocketman).
Eppure, sempre nel 1972, il
jazzista Sun Ra ci credeva ancora al sogno di una Terra Promessa nello spazio, e
realizzò un brano intitolato Space Is the
Place che divenne pure un blaxploitation
nel 1974 (regia di John Coney), dove lo si vedeva fondare una colonia spaziale
afroamericana al riparo dal razzismo dei bianchi e dai loro costosi viaggi
lunari senza senso (come aveva sottolineato con la consueta cattiveria Gil
Scott-Heron nella sua Whitey On The Moon
già nel 1970). Sulla terra nel frattempo
i giovani bianchi si facevano catturare dallo “Space Rock” degli Hawkwind, con
Lemmy Kilmister che, prima di fondare i Motorhead, insegnò nella celeberrima Silver Machine come costruirsi una
navicella spaziale per fuggire.
Dopo il 1980 la Luna quindi era quindi
dimenticata, addirittura costretta a difendersi dal dubbio di essere poi mai
davvero stata calpestata, come ricorderanno i R.E.M. quando nel 1992 in Man On The Moon alluderanno alle teorie negazioniste,
paragonandole alle voci sulla presunta falsa morte del comico Andy Kaufman. E così l’unica eredità artistica lunare a
rimanere viva è forse il Moonwalk, il passo di danza reso celebre da Michael
Jackson, ad oggi l’unica forma creativa che ci riporta ancora una volta sulla
Luna.
Nicola Gervasini
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