Il documentario Dont Look Back
(scritto così, senza apostrofo, forse più per necessità grafiche che per
scelta del regista) uscì nel maggio del 1967, in un momento in cui non era
chiaro se Bob Dylan fosse ancora vivo. Era sparito dal luglio del 1966, a causa
di un mai documentato incidente in moto, ma quel “non guardare indietro” parve
a molti una rassicurazione sul fatto che sarebbe presto tornato. Ma ora che, grazie
a Martin Scorsese, sappiamo quanto a Bob Dylan piaccia giocare con il suo mito
e mostrarci sempre qualcosa che sta a metà tra realtà e finzione, pure Dont
Look Back pare un’operazione mistificatoria. Sicuramente l’intento inziale
del regista D. A. Pennebaker era quello di ripetere con Dylan quello che
gli era riuscito con i coniugi Jacqueline e John F. Kennedy, seguiti fin quasi
nell’intimità nel suo film Primary del 1960. Una vera rivoluzione
cinematografica la sua, che lanciò la concezione del documentarista come colui che
vive accanto al soggetto del suo film in ogni attimo della vita, invece di riprenderlo
da lontano con l’occhio dello spettatore. Idea anche qui di successo, perché Dont
Look Back è fondamentalmente il film che ha definito l’immagine più
classica dell’icona-Dylan. Lo vediamo qui durante la sua prima tournée in terra
britannica del 1965, strafottente, polemico, e irrisorio verso i giornalisti inglesi
che lo trattavano come un pericoloso anarchico, ma anche sinceramente rispettoso
verso i colleghi quando chiede al tastierista Alan Price come mai abbia lasciato
gli Animals, o quando fa i complimenti al suo “rivale” inglese Donovan. Oppure eccolo
giocoso con gli amici, o ripreso nel pieno della creazione di nuovi brani, e
ancora amante sfuggente di una nervosa Joan Baez, e persino piacione con
Marianne Faithfull e alcune giovani fan. Tutto un altro Dylan rispetto a quello
che abbiamo visto nel recente Rolling Thunder Revue di Martin Scorsese,
dove finalmente si scusa con Joan Baez per non averle detto che proprio durante
le scene immortalate in Dont Look Back aveva già una relazione con Sara Lownds,
che poi sposerà in gran segreto da lei e dal mondo (il gossip-scoop che rivelò
le nozze fu opera della giovane giornalista del New York Post Nora Ephron, poi sceneggiatrice
del film Harry Ti Presento Sally, storia di un amore/amicizia a più
riprese molto simile a quella tra Dylan e la Baez). Una Sara che non appare in Dont
Look Back perché raggiunse Bob nella parte finale della tournée, quando la
Baez se ne era già andata sbattendo la porta, e che non appare nemmeno nel film
di Scorsese perché in piena fase di una rottura che porterà i due al divorzio.
Pur di non nominarla, Scorsese, tra le tante “fake news” sparse volontariamente
nel suo “documentario”, si è inventato un regista mai esistito (o forse
qualcuno di voi ha mai sentito nominare Stefan Van Dorp?), e si è “dimenticato”
del film Renaldo e Clara, girato dallo stesso Dylan nel corso della stessa
tournée, con Sara protagonista. Dont Look Back invece è rigoroso nel
descrivere la realtà vista da Pennabaker, ma è lecito sospettare che
l’atteggiamento così sopra le righe del giovane Dylan non fosse altro che una delle
sue recite. Autentiche sono comunque le scene on stage del concerto tenuto al
Royal Albert Hall, o il videoclip inziale del brano Subterranean Homesick
Blues, con l’idea del testo presentato su cartelli in mezzo ad una via di
Londra che darà vita a innumerevoli imitazioni e parodie (Andy Warhol lo citò,
con sé stesso al posto di Dylan, nel video Misfits dei Curiosity Killed
the Cat del 1987). Non il vero Dylan dunque, ma un vero film su Dylan.
lunedì 26 agosto 2019
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