mercoledì 26 maggio 2010

DAVID OLNEY - Dutchman's Curve


C'è un certo timore reverenziale quando ci si cimenta a dare un giudizio su un'uscita discografica di David Olney, perché chissà come mai non si riesce a scrollarsi di dosso l'idea che questo ultrasessantenne di Rhode Island abbia raccolto in carriera davvero poco rispetto a quanto ha seminato. Non stiamo parlando di un nome di punta del songwriting americano, e probabilmente se un Townes Van Zandt in vita ha sempre venduto poco quanto lui, ma ricevuto ben altri onori da colleghi e critica musicale, c'è un perché, però è indubbio che l'uomo susciti una naturale simpatia. Dutchman's Curve (che non proviamo neanche a dirvi che numero di disco sia per non doverci addentrare nelle tante edizioni della sua difficoltosa discografia, ma siamo abbondantemente oltre i venti titoli in carriera) è probabilmente il miglior esempio del suo spessore artistico, che potremmo definire "lussuosamente di secondo piano".

Olney infatti difficilmente scrive canzoni inutili e raramente dimentica di metterci il giusto pathos, sia quando risponde alla Vincent di Don McLean con una egualmente ispirata (ma ovviamente impossibilitata a divenir cotanto classico) Mister Vermeer, dedicata all'altro gigante della pittura olandese, sia quando gioca con lo swing di I'Ve Got A Lot On My Mind, ma anche questo pugno di 13 brani conferma quanto sia bravo soprattutto quando si cimenta in delicate ballate come The Moment I Tell You Goodbye, ma non il più bravo in un genere dove John Prine o Guy Clark (per citare i primi due che vengono in mente cercando nel file "similar artists") sanno dire sempre qualcosa in più. In ogni caso Olney qui ha giocato intelligentemente sulla varietà di stili, toccando addirittura corde aspre alla Steve Earle (Way Down Deep), esperimenti sospesi tra hillbilly e doo-wop (If I Were You e I Only Have Eyes For You) e strani esperimenti di blues (You Never Know). Ad aprire il disco è Train Wreck, brano dedicato al più grande incidente ferroviario degli Stati Uniti datato 1918, anno in cui 282 persone morirono nello scontro di due convogli nella famigerata Dutchman's curve, una stortura della corsa alla civilizzazione americana che Olney ritiene quanto mai attuale.

Il produttore Jack Irwin ha lavorato molto bene sugli arrangiamenti ancor più che sui suoni, riuscendo a dare movimento a tutti i brani inserendo fiati, violini, cori, e contando comunque molto sulla chitarra di Sergio Webb nei momenti in cui riteneva necessaria più elettricità. Resta la sensazione che troppo spesso però i suoi interessanti testi siano al servizio di un certo manierismo che gli impedisce di uscire dal rigido steccato del mondo del songwriting americano, ma probabilmente è che lui stesso non ha nessuna intenzione di farlo. Per questo Dutchman's Curve è fortemente consigliato solo se fate già parte di quel mondo e magari avete ancora l'ottimo The Wheel del 2003 nel lettore cd, altrimenti potete prenderlo come un'ottima lezione di storia americana. E quella non farebbe mai male a nessuno.
(Nicola Gervasini)

Rootshighway, 28/04/2010

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