giovedì 3 settembre 2009

MICHAEL CARPENTER - Redempion #39


05/08/2009
Rootshighway


In un suo vecchio disco (Gadzooks!!!) l'irriverente Mojo Nixon si vantava nelle note di copertina di aver suonato tutti gli strumenti di uno dei brani dell'album proprio come era solito fare Prince. Peccato che poi si scopriva che la canzone in questione (Go Back Home) fosse uno sgangherato simil-traditional suonato con un paio di acustiche quasi scordate, accompagnate da rumori percussivi di dubbia provenienza. Quella goliardica presa in giro del mito del one-man-band-artist sarebbe quanto mai attuale anche oggi, anni in cui il chiudersi in una sala di registrazione (che spesso coincide con la sala della propria casa) e registrare tutti gli strumenti è diventata un'abitudine che secondo molti dovrebbe anche regalare valore aggiunto. Nella trappola ci casca anche l'australiano Michel Carpenter, nostra vecchia conoscenza fin dai tempi in cui con album come Kingsrdworks e Rolling Ball aveva regalato bei momenti di veloce e melodico power-pop moderno.

Sarebbe forse potuto essere il Matthew Sweet degli anni 2000, se non fosse che Redemption #39 esce dopo un lungo silenzio (cinque anni) con molte buone canzoni, ma una produzione autarchica senza troppi colpi di genio, che lascia poche possibilità di riportare in auge il personaggio. Registrato nei propri studi di Sydney in ben tre anni di prove e sovra incisioni, Redemption #39 riprende il discorso senza troppi scossoni rispetto al passato, se non una scrittura più matura e autobiografica, sparando un trittico iniziali di godibilissime pop-song (una Can't Go Back che abusa di jingle-jangle sounds, una ispirata title-track e il puro blue-collar rock di Workin'For A Livin') che dimostrano che tanto minuzioso lavoro non è stato comunque vano. E quando con I'm Not Done With You Michael ha in canna la migliore cartuccia in termini di perfezione melodica (una di quelle canzoni a metà tra Costello e roots-rock che il Freedy Johnston di dieci anni fa produceva con eguale facilità), si ha la sensazione che l'album possa volare alto.

Poi però iniziano gli esperimenti e qualcosa scricchiola: The King Of The Scene ad esempio è una parodia/imitazione dei Queen, con Carpenter che si diverte a ricrearne perfettamente i cori e le schitarrate di Brian May, strabiliante prova di bravura quanto fastidioso intermezzo, come lo potrebbe essere una vera canzone dei Queen piazzata a tradimento in un disco stilisticamente agli antipodi. Dopo un altro episodio non indimenticabile (Don't Let Me Down Again), la festa ricomincia con Middle Of Nowhere e I Want Everything, piccoli vademecum del buon pub-rocker di razza, fino alle finali Falling Down (Graham Parker meets Tom Petty?), Sinking (Blur meets George Harrison?) e Til The End Of Time (REM - epoca Out Of Time - meets Ryan Adams?). I giochi al rimando vi indicano già che qui la forza la fanno le melodie e le belle chitarre, mentre l'originalità latita, come è forse giusto che sia per un disco di fun-rock fatto da un quarantenne con tanta voglia di suonare la stessa musica dei tempi del college.
(Nicola Gervasini)

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