domenica 18 febbraio 2024

NICKEL CREEK

 

Nickel Creek

Celebrants

(2023, Thirty Tigers)

File Under: old blockbusters

 

Era il 2000, e una band dedita ad un bluegrass abbastanza rigoroso, seppur influenzato dall’universo delle jam-bands degli anni 90, conquistò il disco di platino (con relativo Grammy Award) con un album omonimo che vantava la prestigiosa firma di Alison Krauss in produzione. Il disco non era in verità il loro esordio, visto che i Nickel Creek esistono dal 1989 e avevano già prodotto due album, ma con quel disco, e il successivo This Side del 2002, assaporarono l’ultima era di grandi vendite del mercato discografico americano, anche se non con i volumi spaventosi raggiunti nello stesso periodo dalle Dixie Chicks. La sigla cela un trio formato dal mandolinista Chris Thile e dai fratelli Sara e Sean Watkins, tutti artisti a noi noti anche come solisti o session-men, attività che ha pian piano messo da parte il gruppo.

Dopo il 2005 infatti dei Nickel Creek si è sentito parlare solo in occasione di un primo comeback-album, A Dotted Line del 2014, piaciuto più alla critica americana che al pubblico, tanto che ufficialmente li si credevano ormai dissolti. Ma, a sorpresa, ecco arrivare Celebrants, loro settimo disco, registrato manco a dirlo a distanza durante i vari lockdown, coinvolgendo come unico membro esterno il bassista Mike Elizondo, nome curiosamente più noto nel mondo del rap (Eminem e 50 Cent) e del pop (Nelly Furtado), ma utilizzato anche da Fiona Apple, e il loro produttore Eric Valentine, conosciuto più nel mondo dell’heavy metal (e marito di Grace Potter).

Il risultato è un disco formalmente ineccepibile, al limite del perfettino, con una Sara Watkins in gran forma sia come voce che come violinista, ma con una poco auspicabile mancanza di sintesi, con 18 brani e una durata da CD anni 90 a cui forse non siamo più abituati. Più che altro perché, esaurite le soluzioni possibili nell’arco dei primi cinque brani, si entra in un loop di dejà vu, dove anche il mandolino di Thile fa a tempo a diventare ripetitivo, e il gioco di alternanza delle voci esaurisce le sorprese prima della fine dell’album. In ogni caso brani come Strangers o Holden Pattern meritano di entrare nelle vostre playlist più tradizionaliste, ed è quasi un peccato che una bella prova di scrittura come Failure Isn't Forever arrivi alla fine della festa, quando l’attenzione è inevitabilmente un po’ calata. Sicuramente è un disco che troveremo nelle classifiche di fine anno di molte testate specializzate americane, perché risponde ancora perfettamente ai canoni estetici di una scena country-roots ormai un po’ sorpassata e che in fondo ci piace ancora ritrovare, ma con giusta moderazione di entusiasmo.

Nicola Gervasini

 

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