Nickel Creek
Celebrants
(2023, Thirty Tigers)
File Under: old
blockbusters
Era il 2000, e una band dedita ad un bluegrass abbastanza rigoroso, seppur
influenzato dall’universo delle jam-bands degli anni 90, conquistò il disco di
platino (con relativo Grammy Award) con un album omonimo che vantava la
prestigiosa firma di Alison Krauss in produzione. Il disco non era in verità il
loro esordio, visto che i Nickel Creek esistono dal 1989 e avevano già
prodotto due album, ma con quel disco, e il successivo This Side del
2002, assaporarono l’ultima era di grandi vendite del mercato discografico
americano, anche se non con i volumi spaventosi raggiunti nello stesso periodo
dalle Dixie Chicks. La sigla cela un trio formato dal mandolinista Chris
Thile e dai fratelli Sara e Sean Watkins, tutti artisti a noi noti anche
come solisti o session-men, attività che ha pian piano messo da parte il
gruppo.
Dopo il 2005 infatti dei Nickel Creek si è sentito parlare solo in
occasione di un primo comeback-album, A Dotted Line del 2014, piaciuto
più alla critica americana che al pubblico, tanto che ufficialmente li si
credevano ormai dissolti. Ma, a sorpresa, ecco arrivare Celebrants, loro
settimo disco, registrato manco a dirlo a distanza durante i vari lockdown,
coinvolgendo come unico membro esterno il bassista Mike Elizondo, nome
curiosamente più noto nel mondo del rap (Eminem e 50 Cent) e del pop (Nelly Furtado),
ma utilizzato anche da Fiona Apple, e il loro produttore Eric Valentine, conosciuto
più nel mondo dell’heavy metal (e marito di Grace Potter).
Il risultato è un disco formalmente ineccepibile, al limite del perfettino,
con una Sara Watkins in gran forma sia come voce che come violinista, ma
con una poco auspicabile mancanza di sintesi, con 18 brani e una durata da CD
anni 90 a cui forse non siamo più abituati. Più che altro perché, esaurite le
soluzioni possibili nell’arco dei primi cinque brani, si entra in un loop di dejà
vu, dove anche il mandolino di Thile fa a tempo a diventare ripetitivo, e il gioco
di alternanza delle voci esaurisce le sorprese prima della fine dell’album. In
ogni caso brani come Strangers o Holden Pattern meritano di entrare
nelle vostre playlist più tradizionaliste, ed è quasi un peccato che una bella
prova di scrittura come Failure Isn't Forever arrivi alla fine della
festa, quando l’attenzione è inevitabilmente un po’ calata. Sicuramente è un
disco che troveremo nelle classifiche di fine anno di molte testate
specializzate americane, perché risponde ancora perfettamente ai canoni
estetici di una scena country-roots ormai un po’ sorpassata e che in fondo ci
piace ancora ritrovare, ma con giusta moderazione di entusiasmo.
Nicola Gervasini
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