domenica 18 febbraio 2024

SPECIALE SONGWRITERS

 

“Riunitevi attorno me, gente, e ascoltate questa storia”: era questa la frase con cui i primi folksinger da strada in Nord America riunivano le folle per far ascoltare le loro canzoni. Ed è rimasta la storia da raccontare, prima ancora della melodia o del ritmo, il fulcro su cui si poggerà gran parte del songwriting statunitense e canadese negli anni a venire. Le storie della tradizione folk di Woody Guthrie prima, o Pete Seeger poi, servivano a sostituire i giornali per commentare le famose “notizie adatte per cantare”, come le chiamerà Phil Ochs, e da lì partirà anche Bob Dylan, che citerà la formula di richiamo della folla in molte canzoni giovanili, tra cui il famoso proclama generazionale The Times They-re a-Changing. Sarà lo stesso Dylan però a spostare il focus di queste storie, cominciando a raccontare di sé e dei propri amori (primo scandalo per il mondo del folk), e con una band elettrica a supporto (secondo scandalo). Sarà lui che indirettamente contesterà il dogma che gli amori raccontati nelle hit pop (ma anche soul) dovessero per forza avere un linguaggio comune in cui il pubblico potesse identificarsi (anche quando l’ispirazione era comunque personale, vedi Carole King o Laura Nyro), traghettando la scrittura verso lunghi racconti di passioni uniche e irripetibili, infarciti tra l’altro di citazioni colte o bibliche certo non più alla portata del pubblico da strada. Quando i Byrds fecero capire che quei brani potevano ugualmente diventare delle hit da classifica, scrivere canzoni divenne anche un atto letterario prima ancora che un puro mezzo di comunicazione o una produzione commerciale, ed era una azione che poteva essere intrapresa sia da chi era nato scrittore prima che musicista (Leonard Cohen), sia da chi invece divenne autore nascendo chitarrista come Neil Young, o anche chi cominciò a pensare alla canzone come modo per raccontare la Storia con la S maiuscola (Robbie Robertson con la Band). Tre nomi che arrivavano dal Canada, una squadra da completare con Joni Mitchell, la vera regina del songwriting al femminile, colei che per prima scrisse testi dove l’Io-femmina non esisteva solo in funzione del Lui-maschio, ma di una propria complessa e sfaccettata personalità. Neil Young invece fu poi l’autore che più di altri spogliò la lezione di Dylan da ogni pretesa citazionistica, portando il tutto ad una sfera completamente intima a cui gli americani non erano affatto abituati. Ma che abbracciarono presto, se è vero che l’arte del songwriting nei primi settanta entrò in una fase di racconto dell’Io, un abbandono di temi sociali e universali storicamente spiegabile con la grande disillusione che la guerra del Vietnam e il fallimento del sogno hippie avevano lasciato. Per cui, se dalla parte newyorkese gli ormai veterani Lou Reed e Paul Simon raccontavano di una città ormai isolata dal resto nel mondo nella propria decadente perdizione (il primo) o nella nicchia dorata della borghesia intellettuale alla Woody Allen (il secondo), se a Nashville invece la lezione fuori dagli schemi di Johnny Cash generò una serie di autori musicalmente fedeli alla tradizione, ma personali nei temi, come Willie Nelson, Townes Van Zandt, Kris Kristofferson, John Prine, Guy Clark e tanti altri, dall’altra parte arrivarono Jackson Browne, James Taylor, e altri, cantautori dediti ad una musica leggera e gentile, con testi tristi e disillusi sulla possibilità di parlare di un Noi, ma non per questo arrabbiati col mondo. Perché la rabbia vera esploderà quando firme come Bruce Springsteen dal New Jersey o Bob Seger da una Detroit ormai in decadenza, racconteranno storie con un Io ancora come soggetto, ma che parlavano a rappresentanza di un Noi che non era più generazionale, ma di classe. Quella classe che la storia aveva deciso di relegare a morire in qualche fabbrica, senza possibilità di sognare né le terre promesse dall’era hippie, né tanto meno l’amore contorto ed elevato ad opera d’arte di Dylan, riportando la storia ai tempi di Furore di John Steinbeck. E da lì una serie di seguaci che hanno raccontato ognuno la sua storia, dal pioniere Elliott Murphy, alla generazione dei “post-springsteeniani” di Willie Nile, Steve Forbert, e tanti altri, fino a che Tom Petty e John “Cougar” Mellencamp si prenderanno la scena americana trovando in due, e con due stili alquanto diversi, una sorta di sintesi totale di tutto il percorso. Nessuno di questi artisti ha scritto canzoni pensando subito al grande schermo, a parte ovviamente le colonne sonore su commissione (ad esempio Pat Garrett & Billy The Kid di Dylan). In questo senso nel 1984 Purple Rain di Prince, pur su un versante musicale opposto, rappresenta una delle prime simbiosi native tra album e relativo film, in cui è lo stesso artista che ragiona subito anche in termini di storytelling cinematografico. Un esperimento che divenne un modello imitatissimo, che Prince stesso ripeté prima con mezzo successo (il ben venduto Parade e relativo film-flop Under the Cherry Moon), poi con il disastro in entrambe le direzioni di Graffiti Bridge.

 

Filmografia

 

Dont Look Back

Di D. A. Pennebaker (1967)

Il re dei documentari Pennebaker pare interessarsi più al personaggio Bob Dylan che alle sue storie, seguendolo nelle sue scorribande londinesi secondo i dogmi del Direct Cinema, e finisce a spiegare meglio i suoi testi così che a provarci direttamente. Non tutti i registi che lo imiteranno capiranno la lezione sulla differenza tra idealizzazione e semplice fotografia di un mito.

Alice's Restaurant

Di Arthur Penn (1969)

Un talking-folk di 18 minuti basta a fare da plot per un intero film, in cui il figlio d’arte Arlo Guthrie capisce che per raccontare liberamente i disertori del Vietnam e la fine di un sogno, basta inventarsi una comunità hippie che si sfalda per avere buttato la spazzatura nel posto sbagliato. Anni dopo Sean Penn con Lupo Solitario (The Indian Runner) riproporrà la stessa operazione partendo da un brano di Bruce Springsteen.

The Last Waltz - L’Ultimo Valzer       

Di Martin Scorsese (1978)

Scorsese realizza il modello del perfetto concert-movie, alternando le interviste alle esibizioni, e cogliendo nell’addio alle scene della Band di Robbie Robertson il significato della fine di un’era, con una malinconica sensazione di totale mancanza di futuro che rappresenta la perfetta antitesi delle mille speranze di Woodstock.

No Nukes

Di Julian Schlossberg, Danny Goldberg e Anthony Potenza (1980)

Jackson Browne, l’autore che più di tutti aveva cantato la necessità di isolarsi dal mondo e le sue brutture, trova nella lotta al nucleare una ragione per ributtarsi nella folla, facendosi promotore di un perfetto riassunto del songwriting americano degli anni 70, condensato in uno storico docu-concerto sul modello di The Last Waltz

Purple Rain

Di Albert Magnoli (1984)

Anni 80, l’era di MTV si fa film grazie ad una pellicola in puro videoclip-style doppiamente autoreferenziale, visto che fondamentalmente romanza anche la genesi della propria colonna sonora, passando attraverso tutto il mondo di Prince: musica, sesso, famiglia e religione. Disco e film sono per la prima volta un’opera unica e inscindibile.

Falling From Grace – Sulla Strada del Mito

Di John Mellencamp (1992)

Paradosso vuole che John Mellencamp giri un film su sceneggiatura dello scrittore Larry McMurtry, concentrata su quanto il conflittuale rapporto coi propri padri abbia pesato sulla canzone americana, proprio nei giorni in cui stava producendo i dischi di suo figlio James McMurtry. Il film è naïf ma coglie pienamente il senso, magari con un vero regista si poteva anche evitare il flop.

 

No Direction Home: Bob Dylan

Di Martin Scorsese (2005)

Un lavoro filologicamente rigoroso di recupero di immagini e documenti inediti a cui lo stesso Scorsese contrapporrà il provocatorio misto di realtà e fantasia del successivo Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story. Un tassello fondamentale per ricostruire la storia dei primi anni di carriera di Dylan, anche se forse stavolta manca la decadente emozione da “ultimo valzer”.

 

Neil Young: Heart of Gold

Di Jonathan Demme (2006)

Un concerto il cui pubblico si vede solo nelle prime scene, poi Demme si concentra solo su Neil Young e i musicisti che lo accompagnano nella sua versione più country-oriented. Perché è la storia di un uomo indomabile che è appena sopravvissuto ad una operazione per un aneurisma, e non servono urla e applausi, ma tanta musica da ascoltare in intimo raccoglimento.

 I'm Not There - Io Non Sono Qui

Di Todd Haynes (2007)

Bob Dylan ama apparire con diverse facce, perché allora non pensare ad un film dove diverse facce interpretano Bob Dylan? Haynes rende credibile nelle sue vesti persino Richard Gere senza doverlo truccare, e fa fare l’imitazione più verosimile ad una donna (Cate Blanchett), vincendo la folle scommessa di realizzare così il film su Dylan più fedele all’originale.

Crazy Heart

Di Scott Cooper (2009)

Più ancora del biopic su Johnny Cash (Walk The Line di James Mangold), Crazy Heart ha saputo raccontare il mito dei songwriter americani di marca country (i famosi “outlaws” di Nashville), condensando nel country-singer interpretato da Jeff Bridges tutta la maniera agrodolce di rappresentare le debolezze umane di quella generazione di autori.

Inside Llewyn Davis – A Proposito di Davis

Di Ethan e Joel Coen (2014)

Gli storyteller folk raccontati dalla parte di quelli inascoltati, il testimone passato da un simil Dave Van Ronk ad un Dylan più capace di arrivare alle masse passa attraverso fallimenti, disavventure, e gatti che spariscono, si feriscono e riappaiono, come è successo ai tanti eroi del Greenwich Village. L’arte di scrivere storie si trasforma in uno dei film più drammatici dei Coen.

 

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