Diesel Park West
Not
Quite The American Dream
(Happiness Records, 2022)
File Under:
Runaway British Dreams
La foto dei quattro musicisti presente nel cd non lascia spazio a dubbi, i Diesel Park West hanno tutte le rughe dei veterani, se non proprio dei sopravvissuti, di un’altra era del rock and roll. Not Quite The American Dream è infatti il loro decimo album, ma noi li avevamo già riscoperti con il precedente Let It Melt, ed è un piacere sentirli ancora vogliosi di cambi di rotta. La band viene da Leicester, UK, città forse oggi più famosa per un miracoloso scudetto calcistico conquistato dal nostro Claudio Ranieri con la piccola squadra locale, ma negli anni 80 anche piccola fucina di nuove band dedite al rock and roll, con Kinks e Pretty Things come primi poster appesi in camera. Loro stessi raccontano che, nonostante il loro primo album del 1989 (Shakespeare Alabama) sia stato certificato al cinquantacinquesimo posto della Billboard UK, le 150.000 copie vendute (numeri per loro incredibili, anche in un era in cui erano la normalità) devono molto alle vendite nel mercato universitario americano. E sempre all’America guarda infatti questo nuovo sforzo, e sempre prendendo i Kinks a modello, se il precedente Let It Melt suonava un po’ come il loro Face To Face, con il suo piglio garage-rock, qui siamo in pieno “mood” da Muswell Hillbillies, con pesanti incursioni nel folk-rock alla Byrds e nell’americana anni 90. Il titolo dice tutto, i Diesel Park West hanno registrato tutto nella loro città natìa, ma hanno poi voluto coprire il risultato con la vera polvere del Texas, facendo mixare là i brani da Salim Nourallah e John Dufilho (Apples in Stereo). Per questo la strada in copertina sembra Austin, ma è un angolo di Leicester, punto di partenza su una riflessione di come l’Inghilterra si sia via via americanizzata purtroppo negli aspetti meno nobili della yankee-way-of-life. Gone Gone Gone, brano punta dell’album che lo stesso leader John Butler ironicamente definisce “la migliore canzone che Ray Davies non ha mai scritto”, parla infatti di una nazione in declino, e non solo perché il brano è stato scritto nel pieno della pessima gestione Johnson della pandemia e dei nefasti effetti economici della Brexit, ma proprio come spirito di nazione. Canzone dopo canzone, infatti, Butler parla di guerre sempre meno utili ad una nazione che guarda ancora alla politica estera con piglio colonialista (Don’ Mention The War, Peace March), di uno spirito da battaglia di strada sempre più difficile da ritrovare (Surrender Shuffle, Keep On Track) e in generale della difficoltà di essere inglesi e pure felici (Best Of You, sul sistema scolastico britannico, One Shot Of Happiness). Sebbene l’approccio rimanga quello energico e incattivito da band che punta tutto su chitarre sporche e dirette, il suono è spesso infarcito di chitarre acustiche, Rickenbecker alla McGuinn e giri aperti da cantautorato West Coast, che danno all’album un tono decisamente rootsy, volutamente in contrasto con i temi trattati. Insomma, Butler ci dice che l’american dream non c’è più, ma anche il ritorno a casa a Leicester è qualcosa di difficile da digerire per dei vecchi rocker che hanno deciso di continuare a combattere sul palco dei pub del Regno Unito. È là che sarebbe bello trovarli e ascoltarli, visto che l’album, con la sua produzione decisamente live-oriented, sembra cogliere solo in parte la loro verve di esecutori.
Nicola Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento