Cowboy Junkies
Such
Ferocious Beauty
(2023,
Translucent Ltd)
File Under: Family Affair
Esistono due tipi di ascoltatori, da una parte quelli che di un artista ascoltano solo il meglio, dall’altra invece chi si innamora di un suono o di uno stile, e segue un nome in ogni caso, nel bene o nel male. Per questo parecchi di voi, appena si nominano i Cowboy Junkies, si ricordano dei fasti di The Trinity Session (sono passati 35 anni ormai), o magari degli album realizzati perlomeno fino a Lay It Down del 1996, vale a dire la loro era d’oro, quando di un loro album si occupavano tutte le testate musicali. Poi ci sono invece quelli che come noi hanno continuato a seguire ed amare la band dei fratelli Timmins, magari passando attraverso qualche album non completamente a fuoco o solo di passaggio, ma traendone comunque grande soddisfazione in parecchi casi. Per questo non salutiamo questo Such Ferocious Beauty come un ritorno, ma semmai come una conferma di una band con una storia davvero importante. Però è vero che qui siamo nel caso in cui le cose girano davvero al meglio, sia nel suono, che li vede impegnati nella loro versione più spigolosa e psichedelica, ma soprattutto nelle canzoni, frutto di un periodo non facile per i tre fratelli. Il video che accompagna il singolo What I Lost è quanto di più struggente possiate immaginare, perché ritrae il padre di Margo, Michael e Peter Timmins mentre ascolta Duke Ellington pochi giorni prima di morire. Si capisce che l’uomo è affetto da demenza senile, eppure pare che la musica gli risvegli qualcosa, un pensiero, un ricordo, una immagine della sua vita (avventurosa pare, era un pilota di aereo), che i figli hanno cercato di identificare in un brano davvero toccante. E proprio la morte del padre fa da ispirazione di partenza ad un pugno di canzoni che, più che sulla morte, cerca di riflettere sulla vita, e si capisce quanto il disco sia dunque più un diario personale piuttosto che il nuovo capitolo di una band. In questo senso l’album è una sorta di seguito dell’EP Ghosts uscito nel 2020, che si concentrava invece sulla scomparsa della madre, e non è facile per un gruppo musicale produrre dischi così profondi e intimi, ma qui è stata davvero una questione di famiglia, a cui il bassista Alan Anton assiste come sempre come un fratello aggiunto fin dal 1979, quando fondò la sua prima band con Michael Timmins. Nessuna sorpresa quindi nella formula o nella solita suadente voce di Margo, solo una pungo di brani che entrano di diritto nella sezione delle loro migliori scritture come Knives, la notevole Hard To Built, Easy To Break e una Hell Is Real che ritrovo lo spirito più tormentato del loro amato Vic Chesnutt. In mezzo qualche momento più lieve come Mike Tyson (Here It Comes) a dare respiro ad una scaletta che poche band sarebbero in grado di poter produrre nei nostri giorni. Sono roba vecchia i Cowboy Junkies, è vero, ma restano una realtà creativa ancora vivissima anche alla vigilia del loro quarantesimo anno di attività.
Nicola Gervasini
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