Devendra Banhart –
Flying Wig
Mexican Summer 2022
C’è
stato un momento , a metà degli zero, in cui la palma della “next big thing”
della musica indie-folk, che ai tempi imperava nelle classifiche delle riviste
specializzate, se la giocavano il mezzo venezuelano Devendra Banhart con una
accoppiata di acclamati album ancora oggi consigliabili (Cripple Crow e
Smokey Rolls
Down Thunder Canyon) e Sufjan Stevens (soprattutto grazie al successo del’album
Illinois). Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, il revival
della new wave e dei suoni “anni 80” degli anni dieci ha costretto molti
artisti dell’epoca a rivedere i propri piani, e non è un caso che entrambi
abbiano tentato svolte più elettroniche. Ma se le poche pubblicazioni di Sufjan
Stevens, sia quelle più ardite nello sperimentare come The Age of Adz, o quelle
fieramente intimiste come Carrie & Lowell, hanno mantenuto alta l’attenzione
nei suoi confronti, l’impressione è che invece gli album di Devendra Banhart
come Mala e soprattutto Ape in Pink Marble siano non dico passati
inosservati, ma abbiano suscitato una certa noia generalizzata. L’album Ma
del 2019 pareva voler essere un segnale di ripartenza, anche dalla semplicità di
una folk.song, e infatti ha avuto i suoi sostenitori, ma ora questo Flying
Wig riprova la carta del rilancio tramite un sound tutto ad emozioni sintetiche
creato con Cate Le Bon in produzione. Il matrimonio tra folk intimista
anni 2000 e l’elettronica è ormai consolidato da anni, e bene o male ci sono
incappati tutti i grandi e piccoli nomi del genere, per cui anche definire
“sperimentale” un disco del genere oggi suonerebbe un po’ grottesco, semmai si
potrebbe anche dire con una certa severità che Banhart stia viaggiando su terreni
sicuri per non sbagliare.
La
buona notizia è che perlomeno ha rinunciato ad una certa tendenza a mettere
sempre troppa carne al fuoco nei suoi album, a favore di una scaletta
essenziale di dieci pezzi, dove persino i titoli sono di massimo due parole e
quindi subito facilmente memorizzabili (l’epoca dello streaming, si sa, non ama
la prolissità). Ritmi eterei, tappeti di tastiere ovunque, batterie
elettroniche (anche se non tutte), interventi timidi di chitarre, pedal steel e
sassofoni, sono la ricetta pensata da Cate Le Bon per un disco molto omogeneo, anzi,
forse fin troppo monolitico nel perseguire una precisa scelta stilistica. Come
spesso succede nei casi di brani adattati ad un suono a tutti i costi, il gioco
funziona bene in alcuni casi (Nun, Flying Wig, May), mentre in altri (il
suadente singolo Sirens, Twin) forse il suo stile più “folkish” avrebbe dato
più risalto alla canzone e ai testi, che trovano nel concetto di speranza una
sorta di filo conduttore quasi da concept-album (l’ispirazione arriva da un
componimento del poeta giapponese Kobayashi Issa). Flying
Wig mostra un artista sicuramente ancora vivo, ma che sembra aver perso però un
filo conduttore per la sua carriera. A novembre comunque arriva in Italia, e
vedremo sul palco come queste canzoni si sposano coi suoi classici
VOTO:
6,5
Nicola
Gervasini
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