domenica 18 febbraio 2024

DEVENDRA BANHART

 

Devendra Banhart – Flying Wig

Mexican Summer 2022

C’è stato un momento , a metà degli zero, in cui la palma della “next big thing” della musica indie-folk, che ai tempi imperava nelle classifiche delle riviste specializzate, se la giocavano il mezzo venezuelano Devendra Banhart con una accoppiata di acclamati album ancora oggi consigliabili (Cripple Crow e Smokey Rolls Down Thunder Canyon) e Sufjan Stevens (soprattutto grazie al successo del’album Illinois). Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, il revival della new wave e dei suoni “anni 80” degli anni dieci ha costretto molti artisti dell’epoca a rivedere i propri piani, e non è un caso che entrambi abbiano tentato svolte più elettroniche. Ma se le poche pubblicazioni di Sufjan Stevens, sia quelle più ardite nello sperimentare come The Age of Adz, o quelle fieramente intimiste come Carrie & Lowell, hanno mantenuto alta l’attenzione nei suoi confronti, l’impressione è che invece gli album di Devendra Banhart come Mala e soprattutto Ape in Pink Marble siano non dico passati inosservati, ma abbiano suscitato una certa noia generalizzata. L’album Ma del 2019 pareva voler essere un segnale di ripartenza, anche dalla semplicità di una folk.song, e infatti ha avuto i suoi sostenitori, ma ora questo Flying Wig riprova la carta del rilancio tramite un sound tutto ad emozioni sintetiche creato con Cate Le Bon in produzione. Il matrimonio tra folk intimista anni 2000 e l’elettronica è ormai consolidato da anni, e bene o male ci sono incappati tutti i grandi e piccoli nomi del genere, per cui anche definire “sperimentale” un disco del genere oggi suonerebbe un po’ grottesco, semmai si potrebbe anche dire con una certa severità che Banhart stia viaggiando su terreni sicuri per non sbagliare.

La buona notizia è che perlomeno ha rinunciato ad una certa tendenza a mettere sempre troppa carne al fuoco nei suoi album, a favore di una scaletta essenziale di dieci pezzi, dove persino i titoli sono di massimo due parole e quindi subito facilmente memorizzabili (l’epoca dello streaming, si sa, non ama la prolissità). Ritmi eterei, tappeti di tastiere ovunque, batterie elettroniche (anche se non tutte), interventi timidi di chitarre, pedal steel e sassofoni, sono la ricetta pensata da Cate Le Bon per un disco molto omogeneo, anzi, forse fin troppo monolitico nel perseguire una precisa scelta stilistica. Come spesso succede nei casi di brani adattati ad un suono a tutti i costi, il gioco funziona bene in alcuni casi (Nun, Flying Wig, May), mentre in altri (il suadente singolo Sirens, Twin) forse il suo stile più “folkish” avrebbe dato più risalto alla canzone e ai testi, che trovano nel concetto di speranza una sorta di filo conduttore quasi da concept-album (l’ispirazione arriva da un componimento del poeta giapponese Kobayashi Issa). Flying Wig mostra un artista sicuramente ancora vivo, ma che sembra aver perso però un filo conduttore per la sua carriera. A novembre comunque arriva in Italia, e vedremo sul palco come queste canzoni si sposano coi suoi classici

VOTO: 6,5

Nicola Gervasini

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