domenica 18 febbraio 2024

HOLD STEADY

 

The Hold Steady – The Price Of Progress

Positive Jams, 2023

Un giorno qualcuno si prenderà la briga di ordinare i testi delle canzoni di Craig Finn in una organica raccolta di racconti. Anzi, nel corso degli anni, in 9 album come frontman degli Hold Steady e 5 come solista, Finn ha praticamente scritto un vero e proprio romanzo, incentrato sulla vita della provincia americana, nello specifico quella di Ybor City in Florida, prima ancora che di gradi centri come la Minenapolis da cui proviene. Non so cosa freni Finn dal provare anche la carriera di scrittore, sulle orme della felice esperienza di Willy Vlautin o più recentemente di Josh Ritter, ma è ovvio che la passione che si può avere per le sue canzoni, sempre più col passare del tempo, non può più prescindere dall’amore per la letteratura americana e la sua maniera “steinbeckiana” di raccontare le vicende dell’american way-of-life. Dimenticativi gli anni in cui gli Hold Steady raccoglievano anche favori di critica in mondi a loro lontani con album come  Boys and Girls In America o Stay Positive, oggi Finn usa fondamentalmente la band per continuare un proprio percorso personale molto più per hard-fans, solo magari non dimenticando la natura da bar-band tutta chitarre e sudore della sigla. The Price of Progress non cambia la formula, semmai sempre più si fa spingere anche dalla fan-base verso un rock più di protesta, sia perché al disco fa anche riferimento un libro intitolato The Gospel Of The Hold Steady: How A Resurrection Really Feels che racconta la storia del gruppo con gli occhi dei collaboratori e seguaci di una vita, sia perché sempre più le storie dei personaggi di Finn si incrociano con la politica statunitense. La copertina a noi potrebbe parere anonima, ma si tratta di un edificio noto negli states per essere stato una famosa banca del New Jersey, poi dismessa per farci una chiesa, il che fa capire bene la poetica anti-capitalista contro il dio-dollaro insita in queste canzoni. E da quel punto di vista l’album non delude, anzi, Finn sfodera una cattiveria nuova (Understudies, Carlos is Crying), forse a discapito di un po’ di pathos e sentimento (ma arrivano Perdido e Flyover Halftime in soccorso in tal senso). Quello che però non si può più nascondere è una certa ripetitività e stanchezza della formula, dove il talking monotono di Finn comincia a non trovare più una adeguato contorno. Insomma, c’è la sostanza, la rabbia, e il suono adeguatamente sporco (produce Josh Kaufman), ma mancano le canzoni memorabili, i brani che potrebbero costituire uno dei capitoli fondamentali di un romanzo che resta comunque una lettura che non ci negheremo mai, perché alla fine anche ai grandi scrittori si concede un capitolo di passaggio.

Nicola Gervasini

VOTO: 6,5

 

 

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