Weyes
Blood - And In The Darkness, Hearts Aglow
Sub Pop, 2022
Ne ha fatta tanta di strada Natalie Laura Mering, ragazzina nata a Doylestown, paesino di circa ottomila anime sperduto nella Pennsylvania, e artista ormai riconosciuta come uno dei nomi più importanti degli scorsi anni Dieci col nickname artistico di Weyes Blood, storpiatura del titolo di una novella di Flannery O'Connor (Wise Blood). Un esordio distribuito inizialmente su cassetta ancora quando non erano tornate di moda nel 2011, tanta gavetta per le strade, e tre album sempre più acclamati fino a Titanic Rising, uno dei dischi più importanti del 2019. Scriviamo di questo And in the Darkness, Hearts Aglow, suo quinto album, con già davanti parecchie recensioni e reazioni, per cui senza l’affanno di dover presentare qualcosa, quanto forse più spiegare cosa sta succedendo. Il disco per la prima volta pare dividere gli ascoltatori: tra chi la continua ad osannare come la nuova Joni Mitchell, e chi invece appunto sostiene che tutto ciò non può essere minimamente comparabile con l’opera dei suoi più che evidenti riferimenti artistici. E sicuramente, se gli omaggi stilistici dei suoi dischi precedenti erano più immersi in una caratterizzazione artistica personale molto marcata, qui non è difficile immaginare la presenza di un disco di Laura Nyro o di Judee Sill in studio durante la registrazione del brano di apertura It's Not Just Me, It's Everybody, o una chiara intenzione di un “facciamola alla Beach Boys, con campanellini natalizi e cori ovunque” per la successiva Children of the Empire. E sicuramente il tono evocativo di una Grapevine e la quasi a cappella God Turn Me Into Water (brano che ricorda quasi molti lavori di Sinead O’Connor, con in più una coda simil new age che ha fatto storcere più di un naso) hanno un appeal molto mainstream e radiofonico che potrebbe disturbare qualcuno, e la sequenza che si conclude con Hearts Aglow, brano che parte in sordina per aprirsi in un ritornello fortemente melodico che dimostra però quanto buona sia anche la sua penna, si prende decisamente tempi lunghi e meditativi che vanno un po’ in controtendenza con le necessità dell’era dello streaming (sostanzialmente sono solo otto brani, quasi tutti oltre i 5 minuti, con due piccoli inserti, i 15 secondi di And in The Darkness e i due minuti scarsi di The Holy Flux che potevano anche essere evitati). Bisogna spettare Twin Flame, con la sua base quasi trip-hop, per trovare una soluzione più semplice, e soprattutto il classicissimo mid-tempo folk di The Worst Is Done (il brano che ci aspetteremmo di sentire da una Kathleen Edwards o una Natalie Merchant) per uscire da una certa sensazione di soffocamento che il disco volutamente ha voluto dare fin dall’inizio. D’altronde i temi trattati, sempre molto dolorosamente personali, non spingevano a toni più leggeri, ma sebbene il disco appaia come un momento di passaggio, liquidare frettolosamente una artista ancor in evidente picco creativo appare quantomeno ingeneroso.
Nicola Gervasini
VOTO: 7,5
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