domenica 18 febbraio 2024

HOODOO GURUS

 

Hoodoo Gurus

Chariot of the Gods

(Big Time, 2022)

File Under: Rock Is my life and this is my song

Rumori e vociare di un bar, in lontananza si sente una Come Anytime arrivare dal passato. 1989 per la precisione, album Magnum Cum Louder, quel piccolo momento in cui gli Hoodoo Gurus provarono a fare i R.E.M. d’Australia, non trovando però uguale fortuna commerciale. Inizia con questa ammissione del tempo che passa solo nelle carte d’identità dei singoli musicisti, ma non certo nell’identità del gruppo, il nuovo album Chariot of the Gods, solo il decimo in quasi quarant’anni di carriera vissuta con poche pause sui palchi ma molte a livello discografico. E il senso di un disco così nel 2022 è tutto in quell’intro chiamata Early Opener, utile solo ad aprire le danze con la potente World of Pain, la dichiarazione che quello che sentiremo è il solito misto tra garage-rock e jingle-pop puramente anni 80 che propongono instancabilmente da tempo, con una coerenza che potrebbe essere scambiata per incapacità di evolversi. La domanda che dobbiamo farci è infatti “perché dovrebbero?”. In fondo chi altri nel 2022 offre questo rock con ancora questa capacità di trovare il riff micidiale (Get Out Of Dodge), il tiro magnifico (Was I Supposed to Care?), la melodia da college-rock che ti si stampa nella mente già dopo mezzo ascolto (My Imaginary Friend). Quale giovane band oggi sogna di fare questo rock? Nessuna magari no, ma poche si, e magari sono fenomeni poco significativi e poco duraturi come gli irlandesi Strypes, ad esempio, che già dal secondo album si sentono in dovere di ritornare in un presente in cui il rock ha perso questa capacità di parlare con semplicità. Non c’è molto da dirvi di più di questo album se non che la band è in forma e dodici anni di tempo per confezionarlo hanno permesso di selezionare un pugno di brani formidabili, sempre creati da un quartetto ormai assestato attorno agli storici Dave Faulkner, Brad Shepherd e Rick Grossman, più il nuovissimo batterista Nik Rieth, che si prende fin dalle prime note la scena con un big-drum-sound di Zeppeliniana memoria che fa capire che la grana fine richiesta dal rock anni 2000 proprio non faceva per loro. Così come non è cosa loro l’individualismo intimo delle nuove generazioni, che si farebbero segare le mani piuttosto che scrivere ancora oggi una party-song cafona e godereccia come Hang With The Girls, puro rock and roll da party, per feste che chissà se si fanno ancora da qualche parte nel mondo. Se così fosse, loro ci sono ancora, con quello spirito tutto australiano di combattere le miserie della vita a suon di riffoni sporchi e cattivi. In più loro ci mettono ancora la gioia di suonarlo anche per pochi adepti quel rock (in patria restano comunque una intoccabile cult-band, in USA purtroppo sono oramai dimenticati da tempo), lo stesso amore che dimostravano ad esempio i Pretty Things degli ultimi anni, che sebbene a margine del mondo della musica che conta da tempo, continuavano a girare imperterriti nei club suonando sempre con la stessa carica, urgenza, e convinzione. Il rock è roba per vecchi ormai, e forse è meglio così.

Nicola Gervasini

 

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