John Doe
Fables
in a Foreign Land
(Fat Possum, 2022)
File Under: Folkways
Rispetto a tanti eroi dei
bassifondi del mercato discografico degli anni ottanta, l’ X John Doe è
un piccolo caso particolare di continua maturazione. Con la band ormai col
fiato corto di chi aveva dato tanto in breve tempo, nel 1989 Doe aveva
inaugurato la sua ormai lunga carriera solista con un disco di discreto mainstream-roots
come Meet John Doe, e mentre gli X chiudevano la loro storia con un poco
degno testamento (Hey Zeus! del 1993, ma fortunatamente nel 2020 Alphabetland
ha ripreso il percorso con rinnovato vigore), lui faceva un po’ fatica a
trovare non solo un suo spazio, ma anche una sua personale modalità espressiva.
I suoi anni ’90, spesi con la sigla The John Doe Thing, restano poco
memorabili, e si è dovuto attendere il decisivo passaggio alla Yep Rock nel 2005
con album come Forever Hasn't Happened Yet e A Year in the Wilderness
per risentirlo in azione con produzioni sempre più sicure e personali, fino ad
arrivare a dischi davvero belli come Keeper del 2011 o Westerner del
2016. Per questo non sorprende che anche questo Fables in a Foreign Land sia
un disco di gran spessore, perché il suo aver ormai definitivamente abbracciato
un linguaggio folk (o da cantautore di area texana) non sembra davvero una
facile scappatoia di un artista senza più troppo da dire, quanto il naturale
porto d’attracco scoperto dopo una lunga navigazione. E il nuovo album calca
ancor più la mano sul concetto, sviluppandosi in una sorta di concept sull’America
del 1890, registrato con un trio composto dal bassista Kevin Smith (visto
spesso alle spalle di Willie Nelson) e il batterista Conrad Choucroun, con un
sound decisamente scarno ed essenziale che non dà mai però la sensazione di
essere povero o raffazzonato. E Doe si conferma anche ottimo performer in grado
di reggere una classicissima folk-song come Down South (impreziosita dal
violino di Carrie Rodriguez), ma sono le canzoni ad essere di gran
livello, vuoi per quel gusto alla John Steinbeck di raccontare con freddezza
quasi giornalistica la tragedia dei pionieri della provincia americana, vuoi perché
ad aiutare a trovare le parole giuste è intervenuto persino un gigante come Terry
Allen, la cui mano si sente eccome nell’iniziale Never Coming Back.
Il disco spazia comunque nel tex-mex alla Ry Cooder di Guilty Bystander
(con la fisarmonica di Josh Baca), brani in misto tra spagnolo e inglese (El-Romance-o)
e cavalcate western come The Cowboy and The Hot Air Ballon o Travellin’
So Hard. Il ritmo generale in ogni caso è da racconto sussurrato davanti al
camino, perché anche un vecchio combattente del rock come lui, alla soglia dei
70 anni, ha probabilmente più voglia di raccontare alcune storie raccolte nel
corso della sua avventurosa esistenza, piuttosto che infiammare i palchi con i
vecchi amici di un tempo. Che comunque sono sempre lì che lo aspettano, perché
la storia degli X non è finita, ma anche se lo fosse, quella del John Doe
odierno basta a non farsi prendere troppo dalla nostalgia.
Nicola Gervasini
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