domenica 18 febbraio 2024
RON SEXSMITH
Ron
Sexsmith
The Vivian Line
(Cooking Vinyl, 2023)
File Under: Country
Life
Ammetto fin da
subito di avere una certa bonaria simpatia verso Ron Sexsmith e la sua ormai lunga
discografia (con questo siamo al quindicesimo capitolo di
dischi di inediti, non considerando le cassette registrate prima dell’esordio
omonimo o il disco realizzato nel 1991 con gli Uncool). Il termine “bonario”
magari sa di poco rispettoso, ma è indubbio che il suo stile leggero, tenue e
dimesso, ha rappresentato insieme la sua marca di fabbrica ma anche il suo grande
limite, che da molti anni lo ha fatto un po’ sparire dai radar delle riviste
specializzate, magari le stesse che nel 1995 avevano urlato alla “next big
thing” per il suo esordio. Comprensibile in fondo, in questi trent’anni
Sexsmith non ha mai lavorato sul proprio personaggio se non offrendone sempre
la stessa immagine con lo stesso tipo di canzone, e di fatto i dischi della sua
carriera si differenziano più per il produttore messo in gioco (tra i nomi
importanti ricordiamo Mitchel Froom, che resta il suo riferimento principale, Daniel
Lanois, Steve Earle, Bob Rock o Jim Scott), che per una vera differenziazione
del tipo di proposta.
Nulla di male, non è il primo e non sarà
l’ultimo artista che non si smuove dalla sua “comfort zone” (o che quando ci
prova, si sente subito che è poco a suo agio), e così non stiamo a nascondervi
quanto anche The Vivian Line
possa essere considerato “il solito nuovo disco di Ron Sexsmith”, frase che
appunto può essere letta come una rassicurante conferma di una qualità che non
è mai venuta meno (soprattutto nella scrittura), ma anche di una certa pigrizia
intellettuale nel pensare al nuovo disco come una nuova avventura in cui
rischiare qualcosa. Per cui eccolo qui in copertina, in una dimessa aria
agreste che lo vede invecchiato, ma sempre con quell’aria da timidissimo nerd
degli anni 90 che non vede l’ora di richiudersi nella propria stanza a comporre
i propri bozzetti dove racconta quello che a parole non riuscirebbe mai a dire.
Di fatto resta uno dei padri del modo di fare cantautorato degli anni 2000,
anche se pochi si ricordano di riconoscerglielo. Per il resto il disco ha
l’aria casalinga tipica di tutti gli album dell’era-lockdown e racconta proprio
il suo auto-esilio nelle campagne di Stratford in Ontario dopo una vita passata
nella caotica Toronto, ma in What I Had In Mind ci fa subito sapere che
stavolta non si parlerà di depressione ma di rinascita (“Ho lasciato indietro
le mie lacrime e ora vi spiego cosa avevo in mente”). E così spira aria di ottimismo
persino quando ricorda i vecchi amori (When Our Love Was New) o si cala
nei panni dello storyteller folk (Diamond Wave). Nulla che cambi troppo
il suo percorso, ma forse siamo di fronte all’inizio di una fase di maturità
che rende comunque non vano lo sforzo di seguirlo puntata dopo puntata.
Nicola Gervasini
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