Beirut – Hadsel
2023 – Pompeii Records
Il trentasettenne Zachary Francis Condon rappresenta in qualche modo l’ormai deragliato sogno della globalizzazione, intendendo il termine come un tempo, con una accezione del tutto positiva di incontro tra culture diverse, conseguente arricchimento reciproco, e nascita di un uomo nuovo che travalichi i confini e le divisioni. Messicano nato a Santa Fe, si è innamorato dei suoni del mondo in una viaggio in Europa dove ha incontrato la musica etnica (quella che chiamavamo World Music, ma pure questa è storia vecchia), il fado portoghese, e ovviamente la musica balcanica. Pure il nickname che si è scelto, Beirut (inizialmente a rappresentanza solo di sé stesso, ma ormai a tutti gli effetti considerato il nome di una band), è stato scelto proprio perché la capitale libanese, prima che lui nascesse, rappresentava questo ideale di perfetto incontro tra culture antitetiche (ricordate quando la chiamavano “La Parigi del Medio Oriente”? A dirlo oggi viene quasi da pensare che ce lo siamo davvero tutti sognato).
Il primo album Gulag Orkestar del 2006 era un unico grande omaggio all’Europa dell’Est, una sorta di versione indie-mex di un disco di Goran Bregovic secondo alcuni. E il viaggio multiculturale non è mai finito da allora, portandolo con il precedente Gallipoli a registrate anche in Puglia e cibarsi anche dei sapori del nostro sud (ricordiamo che l’etichetta discografica da lui fondata si chiama Pompeii). Stavolta però, per il loro sesto album, ci dobbiamo spostare ad Hadsel, paese della Norvegia dove Zachary si era rifugiato in tempi di lockdown anche per curare una forte laringite contratta proprio a casa nostra, e dove in quella solitudine che solo i paesi nordici sanno orchestrare in maniera così perfetta, lui ha scritto queste canzoni usando l’organo della chiesa del paese (da qui la copertina). Capite subito che quindi non sarà facilissimo entrare nel mood di brani che si intitolano Arctic Forest o Island Life vivendo magari a Milano, dove il silenzio nessuno sa cosa sia da secoli, ma se siamo riusciti ad entrare in sintonia con gli album dei Sigur Rós o apprezzare l’aura bucolica dei dischi dei Big Thief anche in mezzo al traffico cittadino, allora il risultato di tanto isolamento, che quasi potete anche facilmente immaginare, ci suonerà famigliare.
Il disco è stato scritto suonato
da solo, persino quando è stato perfezionato in Messico utilizzando elementi
tipici del loro sound come la tromba, che chiude benissimo il disco in Regulatory, o l’ukulele, ma
l’assenza della band ha aumentato il peso di sintetizzatori e drum machines, che allontanano l’album dal concetto di folk a
cui spesso vengono associati. Il risultato è un disco monolitico nella sua
ispirazione, ma decisamente vario negli spunti che propone, e ogni brano
meriterebbe un discorso a parte, dall’ottimismo di The Tern alla malinconia
della title-track. Probabilmente Hadsel sarà un titolo che volentieri metteremo
in una ipotetica lista dei migliori dischi
nati nel più totale isolamento umano e artistico, dall’esordio di Bon Iver di
For Emma, Forever Ago fino al Van Morrison quando inseguiva in solitudine i
sentieri battuti dalla poesia di Yeats. Fatelo vostro come il disco ideale per
questo lungo inverno che ci attende
Nicola Gervasini
VOTO: 8
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