Harp
Albion
(Bella Union, 2024)
File Under: Dream-Indie
La storia è di quelle che si sono
raccontate mille volte nelle riviste che si occupano di gruppi musicali, una
band parte per amicizia fin dai banchi di scuola, arriva a farsi conoscere, ma
proprio quando il momento pare quello d’oro, qualcosa si incrina, per poi
rompersi in uno scioglimento o un abbandono pesante che interrompe la favola.
In pochi scommettevano sul futuro dei Midlake nel 2012 quando il
cantante e tastierista Tim Smith (e soprattutto praticamente unico autore dei
brani fino a quel momento, da non confondere con il da poco scomparso vocalist
dei Cardiacs) ha lasciato il gruppo a registrazioni del quarto album già
iniziate. Eppure i suoi compagni hanno comunque portato a termine il lavoro
(facendo uscire il più che dignitoso Antiphon nel 2013), e, soprattutto, nel
2022 sono tornati con il disco For the Sake of Bethel Woods, dimostrando che,
dopo averci pensato un po’, hanno deciso che la sigla non merita di morire così
presto. Smith aveva lasciato la barca proprio quando stava andando fortissima,
con due album giustamente osannati dalla critica (The Trials of Van Occupanther
e The Courage of Others), e soprattutto il contributo decisivo dato al
fortunatissimo Queen of Denmark di John Grant. E lo ha fatto dando poche
spiegazioni, e soprattutto quasi scomparendo dalla circolazione. Per questo
possiamo ben dire che questo Albion, suo primo album mezzo-solista pubblicato
con il moniker Harp che comprende anche la moglie e collaboratrice Kathi Zung, è un
disco che in molti hanno atteso, con grandi aspettative che francamente non so
quanto siano state rispettate. La voce è ancora quella celestiale che
ricordavamo, e la mano felice a scrivere melodie sognanti e perfettamente
costruite non sembra affatto arrugginita, come dimostrano bellissime canzoni
come I Am The Seed o Silver Wings. Ma qualche perplessità la
esprimiamo sulla parte di produzione e arrangiamenti, tutti basati su una
tastiera che insegue gli anni ’80 a metà tra il dream pop dei Cocteau Twins nel
migliore dei casi (che sono davvero la prima band a cui pensi ascoltando il
disco), e certo pop di atmosfera di quegli anni. Gli fa da contraltare una
chitarra che insiste in un arpeggio ipnotico, impantanandosi anche un po’ nella
ripetitività, il che rende l’impianto sonoro del disco un po’ monocorde, e alla
fine in certi momenti, tra piccoli strumentali quasi new age e suoni molto
cristallini, più che ai Cocteau Twins pensi quasi ai levigatissimi Clannad
degli anni 80. Peccato perché dal punto di vista della scrittura Smith ha
ampliato la gamma espressiva includendo anche un tono vagamente acid-folk alla Roy Harper, e i testi sono anche più
elaborati della media nel sondare le fragilità umane, ma la sensazione è che
nell’inevitabile confronto con i suoi vecchi compagni di strada, ad averci perso
nel divorzio al momento pare proprio lui. Il suo vantaggio è che però lui ha
appena iniziato, e ha davanti una strada ancora lunga.
Nicola Gervasini
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