domenica 18 febbraio 2024

HARP

 

Harp

Albion

(Bella Union, 2024)

File Under: Dream-Indie

La storia è di quelle che si sono raccontate mille volte nelle riviste che si occupano di gruppi musicali, una band parte per amicizia fin dai banchi di scuola, arriva a farsi conoscere, ma proprio quando il momento pare quello d’oro, qualcosa si incrina, per poi rompersi in uno scioglimento o un abbandono pesante che interrompe la favola. In pochi scommettevano sul futuro dei Midlake nel 2012 quando il cantante e tastierista Tim Smith (e soprattutto praticamente unico autore dei brani fino a quel momento, da non confondere con il da poco scomparso vocalist dei Cardiacs) ha lasciato il gruppo a registrazioni del quarto album già iniziate. Eppure i suoi compagni hanno comunque portato a termine il lavoro (facendo uscire il più che dignitoso Antiphon nel 2013), e, soprattutto, nel 2022 sono tornati con il disco For the Sake of Bethel Woods, dimostrando che, dopo averci pensato un po’, hanno deciso che la sigla non merita di morire così presto. Smith aveva lasciato la barca proprio quando stava andando fortissima, con due album giustamente osannati dalla critica (The Trials of Van Occupanther e The Courage of Others), e soprattutto il contributo decisivo dato al fortunatissimo Queen of Denmark di John Grant. E lo ha fatto dando poche spiegazioni, e soprattutto quasi scomparendo dalla circolazione. Per questo possiamo ben dire che questo Albion, suo primo album mezzo-solista pubblicato con il moniker Harp che comprende anche la moglie e collaboratrice Kathi Zung, è un disco che in molti hanno atteso, con grandi aspettative che francamente non so quanto siano state rispettate. La voce è ancora quella celestiale che ricordavamo, e la mano felice a scrivere melodie sognanti e perfettamente costruite non sembra affatto arrugginita, come dimostrano bellissime canzoni come I Am The Seed o Silver Wings. Ma qualche perplessità la esprimiamo sulla parte di produzione e arrangiamenti, tutti basati su una tastiera che insegue gli anni ’80 a metà tra il dream pop dei Cocteau Twins nel migliore dei casi (che sono davvero la prima band a cui pensi ascoltando il disco), e certo pop di atmosfera di quegli anni. Gli fa da contraltare una chitarra che insiste in un arpeggio ipnotico, impantanandosi anche un po’ nella ripetitività, il che rende l’impianto sonoro del disco un po’ monocorde, e alla fine in certi momenti, tra piccoli strumentali quasi new age e suoni molto cristallini, più che ai Cocteau Twins pensi quasi ai levigatissimi Clannad degli anni 80. Peccato perché dal punto di vista della scrittura Smith ha ampliato la gamma espressiva includendo anche un tono vagamente acid-folk  alla Roy Harper, e i testi sono anche più elaborati della media nel sondare le fragilità umane, ma la sensazione è che nell’inevitabile confronto con i suoi vecchi compagni di strada, ad averci perso nel divorzio al momento pare proprio lui. Il suo vantaggio è che però lui ha appena iniziato, e ha davanti una strada ancora lunga.

Nicola Gervasini

 

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