Sarebbe stato facile allestire
una mostra come David Bowie Is all’indomani
della sua improvvisa morte, avvenuta il 10 gennaio scorso. L’agiografia del
personaggio, spinta molto oltre il mero discorso artistico, è evidente, quasi
da esaltazione postuma, ma l’esposizione (in scena al MAMbo di Bologna ancora
fino al 13 novembre 2016) è stata in verità ideata nel 2013 da Victoria
Broackes e Geoffrey Marsh, e, ad oggi, è già transitata in altre otto città
mondiali. Il concept è semplice ed efficace: non potendo rappresentare al
meglio la sua musica, si è scelto di illustrare “lo stile Bowie”, rivisitato attraverso
una pittoresca storia dei suo abiti di scena e dei tanti personaggi interpretati
dal signor David Jones (questo il suo vero nome ) sul palco, in televisione e al
cinema. Per quest’ultimo è presente una vera e propria riproduzione di sala
cinematografica con in onda spezzoni dai suoi film più famosi, dall’Uomo che cadde sulla Terra di Nicolas
Roeg a The Prestige di Cristopher
Nolan, teatro compreso. Più che i musicisti, a parlare di lui in questa mostra sono soprattutto
gli stilisti che lo hanno vestito, e che con lui hanno contribuito a creare un
vasto catalogo di icone rock, imitate da mille artisti in ogni epoca. Il pregio
della rassegna è proprio quello di introdurre qualunque visitatore (anche chi
non ne conosce approfonditamente storia e musica) nel mondo di un entusiasta e
instancabile creatore d’arte e idee. Bowie ha fatto di tutto e tutto sempre
bene, sbagliando a volte, ma riuscendo poi sempre ad arrivare dove voleva. Il
ritratto che ne esce è quello di un uomo
assolutamente non manipolabile, una spugna di mille influenze che nessuno è
stato in grado di strizzare senza la sua consapevole direzione. Ha venduto anche
tanto, ma sempre come ha voluto lui, con il vestito che aveva in mente, e con
il suono preciso che cercava in quel momento. Particolare enfasi la mostra pone
sugli esordi, sull’era Ziggy Stardust e sull’esilio berlinese, in un tripudio multimediatico
di video, musica, abiti e reperti storici come testi scritti a mano, i synth
utilizzati da Brian Eno, e tante altre curiosità che tengono impegnati per due
ore buone senza mai avere la sensazione di vuoto. Ad esaltare l’unico grande
artista che ha dimostrato che la forma conta quanto il contenuto.
Nicola Gervasini
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