Abbiamo già parlato in passato di Andre Williams su queste pagine, ma è bene ricapitolare. Ottant'anni da compiere il prossimo 1 novembre, Williams conobbe una brevissima stagione di successi tra il 1955 e il 1957, quando finì in classifica con brani come Bacon Fat, Jail Bait o Greasy Chicken, piccoli classici su cui hanno studiato generazioni di artisti a New Orleans, da Dr. John fino a Willy DeVille. Poi però la sua storia parla di un unico ritorno discografico nel 1966 (il brano era Cadillac Jack), e quindi l'oblio. Negli anni Ottanta, finiti anche i soldi delle royalties per aver messo la penna nel successo Shake Your Tailfeather (cantata, tra i tanti, anche da Ray Charles nel film The Blues Brothers), Williams fece vita da barbone, alcoolizzato, drogato, e come tanti altri suoi coetanei, dimenticato da un era in cui la sua musica non poteva essere più di moda.
Benedetti furono gli anni Novanta e un certo rilancio del gusto blues e del soul old-style, se è vero che dal 1990 ad oggi Williams ha ripreso a pubblicare con regolarità. Della freschezza blues-pop di gioventù resta ben poco, con una voce affaticata e usata quasi sempre più per parlare che per cantare, Williams ha abbracciato uno stile di blues infernale che ben si adatta alle sue esigue possibilità. Da recuperare anche le sue collaborazioni con i Sadies (Red Dirt del 1999 e Night & Day del 2012). Di Hoods and Shades nel 2012 avevamo parlato storcendo un po' il naso, ma sebbene oggi nel mondo new soul si possa trovare molto di meglio in termini di black music, questo I Wanna Go Back to Detroit City riesce a tratti ad attirare l'attenzione. Lo fa recuperando spirito, suoni e temi di una città ormai ridotta in macerie e povertà a seguito di un decadimento industriale che ha radici profonde e lontane, ma che proprio grazie alla forte rabbia da sfogare dei suoi cittadini, ha rappresentato da sempre un polo musicale importante e volto sempre ad una musica sporca ed energica, sia nel blues e nel soul (è nata qui la Motown Records), che nel rock classico (pensate a Bob Seger e Grand Funk Railroad), fino ad arrivare agli Stooges di Iggy Pop e agli MC5.
La title-track iniziale è una sorta di programmatico annuncio di amore per il clima malsano della città, ma nel disco è davvero notevole l'ideale seguito di Detroit (I'm So Glad I Stayed), che in poco più di quattro minuti riassume anche ironicamente (Sono un Democratico con attitudini repubblicane declama l'incipit del brano) tutto il perché dell'amore/odio per una realtà ormai degna di un film apocalittico. Ben prodotto da Matthew Smith, il disco si avvale della esperta chitarra di Dennis Coffey, vecchio house-guitarist della Motown, che con il suo tocco infonde il giusto ritmo funky a brani come Times o al giro rock di What Now?. A volte si gira a vuoto (Mississippi Sue, o l'inutile strumentale finale) o dilata troppo brani come Hall Of Fame, più di cinque minuti di ironico e tagliente spoken sulle nomination del rock storico, mentre altrove si va sul sicuro con vecchi giri blues (Meet Me At The Graveyard e I Don't Like You No More). Comunque consigliato.
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