mercoledì 6 ottobre 2010
HALFWAY - An Outpost of Promise
Gli Halfway da Brisbane (Australia) sono nostri compagni di viaggio già da qualche anno. Li avevamo scoperti nel 2005 con l'esordio Farewell to the Fainthearted, e ancora l'anno successivo con Remember The River, per qualche stampa americana una rivelazione, quando per noi era già un semplice consolidamento. Band votata ad una sorta di alternative-country ante-litteram, che chi ha qualche reminiscenza del sottobosco del genere negli anni 90 può tranquillamente assimilare allo stile dei Say Zuzu o dei Black Eyed Dog che furono, la band rompe un travagliato periodo di silenzio ritornando con grande convinzione con questo An Outpost Of Promise. La formazione è sempre quella, sette elementi capitanati da John Busby e Chris Dale che riempiono ogni strumento a corda possibile di un sound sempre alla ricerca di una personalità che non affiora mai appieno. Nei due dischi precedenti ci aveva provato Rob Younger dei Radio Birdman in veste di produttore a cercargliene uno, questa volta invece è nientemeno che Robert Forster dei Go Betweens a metterci cervello e know-how.
Il risultato ancora una volta è quello di un significativo spaccato di songwriting "all'americana" che stenta ancora a diventare una pagina veramente importante, nonostante i sette abbiano tutte le credenziali di buoni musicisti e di autori, in grado comunque di maneggiare anche una materia non da tutti come il Pian della Tortilla di John Steinbeck che ha ispirato il testo del brano Tortilla Code. Quello che piace comunque degli Halfway è proprio l'insieme, l'idea che sette musicisti riescano a raggiungere buoni livelli di scrittura (Monster City e Oscar lo sono davvero) con un lavoro di squadra che ne dimostra un affiatamento davvero difficile da raggiungere. Ma è ovvio che un disco che promette "storie di amicizia, di ultimi bicchieri e promesse delle tre del mattino, di speranza per qualcosa di migliore e svolte del destino, di piccole decisioni e di quanto grandi possono essere i loro effetti sulle nostre vite", insomma tutte quelle cose semplici della cultura che parte dal basso, non s'inventa davvero nulla.
Non è un caso se il brano che più resta nelle orecchie sia una semplicissima ballad come It's Ok, storie di donne che fanno parte della strada, della città, di noi e che tutto sommato non smetteremo mai di raccontarci. Quello degli Halfway è solo uno dei tanti linguaggi per farlo, è un idioma che parla solo agli appassionati di musica delle radici yankee e non ha nessun ampio respiro intellettual-avanguardistico che possa interessare gli amanti di generi magari più coraggiosi, ma poi mica sempre così efficaci nel parlare di emozioni. In fondo esistono e continuano ad esistere anche quelle, e questa musica serve solo a regalarcene ancora qualcuna.
(Nicola Gervasini)
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