domenica 10 ottobre 2010

DYLAN LEBLANC - Paupers Field


“There’s a new kid in town” avrebbero cantato in questo caso gli Eagles, e il fatto che si chiami Dylan potrebbe aumentare il clamore della notizia. Ma Dylan LeBlanc con il buon Bob non ha nessuna parentela, solo un nome di battesimo impegnativo per un poco più che ventenne che si affaccia al mondo della canzone country (o pseudo-tale) con la buona credenziale della fiducia accordatagli dalla Rough Trade. Ma LeBlanc, capelli lungi e mascella in vista come l’Eric Andersen di un tempo, in verità professa un verbo che lo porta spesso a citare Townes Van Zandt e l’indimenticato Willis Alan Ramsey quando deve citare esempi di musa ispiratrice. E per questo Paupers Field, debutto annunciato e dunque atteso già da un anno, la Rough Trade ha fatto tutte le cose per bene: hanno preso una produttrice/ingegnere del suono di grido a Nashville (Trina Shoemaker, curriculum da favola fin da quando nel 1993 Malcolm Burn le insegnò il mestiere di ingegnere del suono nelle sessions di American Caesar di Iggy Pop), chiesto a Emmylou Harris di fargli da madrina artistica mettendo il suo inconfondibile controcanto nella riuscita If The Creek Don’t Rise, e prodotto un album che potremmo definire di “country moderno”. Vale a dire la perizia di un giovane chitarrista cresciuto in Louisiana tra maestri di fingerpicking e cajun melmoso, unita a tristi e indolenti country-songs cammuffate da soffici ballate da indie-folker per nulla fuori dal tempo. Difficile dare un giudizio sereno, da una parte la tensione emotiva scatenata dal duello tra violino e arpeggio in Emma Hartley, (con una steel guitar splendida a fare da arbitro nella tenzone), o la poesia dell’iniziale Low ci confermano che le giovani leve imparano presto l’arte della scrittura, e questo non può che consolare. Ma dall’altra non si può non notare che LeBlanc arriva non secondo, ma ben ultimo nel proporre una formula davvero simile a quanto già sentito da Joe Purdy in primis, e da tanti altri (si può arrivare anche a citare Ray Lamontagne prendendola alla lunga) in seconda istanza. Il disco soffre ancora dunque di una eccessiva insistenza sui toni malinconici e sull’amore per il suono degli strumenti, un vero piacere per le nostre orecchie quando dalle casse escono le soavi note di Ain’t Too Good At Losing o dei begli archi di 5th Avenue Bar, ma un po’ limitante in termini di varietà espressiva. E invece siamo convinti che il ragazzo abbia i numeri per offrire ancora di più di un esordio decisamente interessante, quanto forse troppo pensato da altri perché non fallisse l’obiettivo di captare l’attenzione. Missione compiuta, i fari sono puntati su LeBlanc, che sappiamo ora essere già in tour con Calexico, Wilco e tante altre belle compagnie. Lo rincontreremo sicuramente anche noi. Nicola Gervasini

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