Father John Misty
Mahashmashana
(Sub Pop/Bella Union, 2024)
File Under: All Included
Le classifiche di fine anno sono uscite ovunque, le recensioni si sono già sprecate, le discussioni si sono già
consumate, e mi accingo a scrivere dell’ultima fatica di mister Josh Tillman nel suo ormai abituale e forse
definitivo alias Father John Misty quando ormai quando ormai già sembra essere stato detto tutto.
Riassumendo, se non conoscete il personaggio per vostro approfondimento personale, il messaggio che vi
potrebbe generalmente arrivare è qualcosa che sta intorno al “ha talento, è talvolta geniale, ma è
sostanzialmente pretenzioso”.
Facciamo un passo indietro allora. 15 anni fa proprio su queste pagine scrivevo del disco Year in the
Kingdom, ottava uscita in pochi anni a nome J Tillman, che “mi piacerebbe così vedere ad esempio J. Tillman
alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di primo livello, una strategia discografica e i mille
buoni/cattivi consigli che si aggiravano nei corridoi delle etichette discografiche”. Non avevo idea ai tempi
che anche a lui sarebbe evidentemente piaciuto, visto che dal 2012 non solo ha cambiato nome artistico,
ma da scarno homemade freak-folker (così lo definivo io stesso ai tempi), si è trasformato nell’incarnazione
moderna di Harry Nilsson, tra iper-produzioni kitsch e toni da grandi show. Un percorso in crescendo tra
album belli e complessi, in cui la forma di pop barocco che proprio Nilsson seppe realizzare meglio di tanti
altri, si alimenta di tutto quello che la storia del rock ha poi creato successivamente agli anni 70. Uno sforzo
produttivo enorme che ovviamente gli ha portato in session i produttori che speravo ai tempi (qui lo
affiancano Drew Erikson e Jonathan Wilson).
Mahashmashana è nel bene e nel male il sunto migliore della sua arte. Bene perché conosco pochi artisti
moderni in grado di maneggiare con maestria così tanti elementi (orchestre, fiati, cori, elettronica, melodie
pop, ritmi, testi taglienti e non banali), male perché poi conosco pochi artisti moderni in grado di fare un
grosso pasticcio come la detestabile Screamland, quasi sette minuti di insensato pastone di voci e tastiere,
arrivati dopo che Mental Health già un po’ aveva messo a prova la nostra pazienza. Prendere o lasciare,
negli 8 lunghi brani che compongono questa opera si passa dall’odiarlo ad amarlo (She Cleans Up ad
esempio è perfetta), senza trovare vie di mezzo, accettando che anche un brano che poteva
tranquillamente vivere solo di voce a pochi strumenti come Being You finisca sommerso da violini e sax
suadenti, e sapendo che iniziare un disco con i 9 minuti philspectoriani della title-track è un colpo d’autore,
ma anche una evidente spacconata.
E che dire della magnificenza della quasi disco-dance I Guess Time Just Makes Fools of Us All, dove potete
trovarci tutto, la yacht music, I sax alla Bowie, il Beck più piacione, i Bee Gees volendo. Il finale di Summer’s
Gone sta dalle parti del Billy Joel più ammiccante e romantico, e anche qui pare di vedere il suo sorrisetto
sardonico mentre pensa “voglio vedere tutti quei grandi critici che si sparerebbero piuttosto che ascoltare
un disco di Michael McDonald, sbrodolare lodi per questa cosa”. Insomma, quest’uomo è seriamente
bravo, ma i suoi dischi continuano a suonare anche un po’ come delle serissime prese in giro.
Nicola Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento